(M. Crosetti) Nell’etereo mondo del calcio mercato, dove tutto è possibile e qualcosa è pure vero, le parole per dirlo procedono di conseguenza. Sono un codice, il lessico di una setta praticata da pochissimi ma conosciuta da tutti. Come ogni lingua tecnica, il mercatese ama neologismi e forzature: spinge al limite il significato di un lemma, lo dilata e lo rovescia. Dal parto può anche nascere un mostro, come il famigerato “prospetto”: in gergo definisce un giovane calciatore, appunto, di prospettiva, uno che è già bravo e diventerà bravissimo. Peccato che in italiano prospetto voglia dire “veduta di ciò che si ha di fronte”. Ma il calcio mercato, si sa, vede oltre. Devi vendere qualcuno? Sei obbligato? Se racconti ai tifosi di avere un’occasione in uscita, tipo Rüdiger, forse farai pure bella figura. Così parlano i procuratori, compreso Raiola che conosce sette lingue fuorché la propria. Non chi vendi e chi compri, ma chi esce e chi entra. Siamo quasi allo “scendi il cane che lo piscio”. Un cercatore di talenti è un caposcout perché fa scouting pur senza andare in parrocchia. E non cerca giocatori ma profili: particolarmente apprezzati quelli che sanno dare profondità e servire palloni col contagiri, ma questo è un altro vocabolario, il calcese televisivo.
Nel corso delle trattative, dove nel braccio di ferro c’è sempre una distanza da colmare tra domanda e offerta (ballano milioni), si svolgono vertici di mercato anche soltanto a due e non sono rari gli ultimatum, quasi sempre finti, più che altro penultimatum perché il mercato procede con le formule delle serie tv. E quando si raggiunge l’accordo si chiede il gettone alla firma, l’alfa di un romanzo popolare dove l’omega è sovente la temutissima buonuscita, talvolta collegata per misteriose vie carsiche alla clausola rescissoria. Per fortuna, da qualche tempo sembra caduto in disgrazia il diritto di recompra, in spagnolo perché si cominciò con Morata ed è la stessa solfa del triplete: lo chiemeremo così, alla Mourinho, anche quando lo centrerà una formazione islandese. Del resto, se un 5-0 dev’essere per forza una manita, capite bene che dall’esterofilia linguistica non si scappa. Il provincialismo non di rado comincia parlando.
Ai confini tra alta finanza e gastroenterologia, il calcio mercato non può mai trascurare il mal di pancia dei giocatori. Cioè coloro, in pratica tutti, che vogliono cambiare aria per guadagnare di più, spinti da quelli che parlano sette lingue meno una. Alcuni saranno sacrifici necessari agevolati dal bonus facile. Per capirlo, il povero tifoso dovrebbe saperne di economia più di Joseph Eugene Stiglitz, premio Nobel 2001, perché tra minusvalenze e plusvalenze proveranno a convincerlo che la partenza di Higuain fu un affarone per il Napoli.
Se i calciatori italiani fossero creativi come chi ne racconta le peripezie contrattuali, se possedessero l’identica fantasia, vincerebbero tutti gli anni la Champions League (che bello quando si chiamava Coppa dei Campioni). Un club deve scegliere se acquistare l’ultimo extracomunitario? Allora userà lo slot. E se andrà bene sarà un crack, altrimenti un flop. Gulp! Ma non pensiate che i re del mercato (qui la monarchia è assoluta) siano degli sprovveduti improvvisatori: no davvero. Ogni profilo e ogni prospetto seguiti dal caposcout verranno a lungo attenzionati e monitorati, di modo che il campione possa poi posizionare il pallone nel modo giusto. Chissà Giuanbrerafucarlo che risate, da lassù.