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Il Messaggero El Shaarawy, il piacere di scoprirsi un uomo ideale

Di Francesco e El Shaarawy

(A. Angeloni) In Champions – con ogni probabilità – toccherà ancora a lui, un po’ perché Perotti non sta bene, un po’ perché Di Francesco, dopo la vittoria contro l’Udinese, lo ha definito «l’uomo ideale» per il suo calcio. Ovvero per il 4-3-3. Stephan vive da sempre di etichette, la più vistosa è quello che lo definisce «un’eterna promessa». Poi c’è quella che si porta avanti da sempre: «Il prossimo sarà l’anno della consacrazione». E lui giustamente pensa sempre che sia quello in corso. El Shaarawy piace a DiFra, perché è un esterno alto di qualità e fatica, è uno a cui piace fare gol, nel senso che ha l’egoismo del bomber: cerca l’interno per andare al tiro, raramente si perde in giochini fantasiosi. Vuole la porta e basta. Si vede che dentro di sé porta ancora i segni di quando era bambino, di quando incantava Genoa, poi San Siro, segnando e giocando da attaccante puro o seconda punta. La trasformazione tattica è figlia del calcio moderno, nel quale tutti devono saper difendere, anche le punte, soprattutto le punte. E con Conte, ad esempio, lo abbiamo visto anche come esterno del 3-5-2, che era sicuramente una forzatura tattica.

AZERO A ZERO – L’Europeo in Francia lo ha vissuto da spettatore e un po’ gli è dispiaciuto. Ma Conte guardava i test e Stephan era quello che percorreva meno metri. Capirai, vade retro. Eppure lui per portare la Nazionale in Francia aveva contribuito e con un certo profitto, segnando anche una rete in Azerbaigian (mercoledì sarà la terza volta contro una squadra azera, la prima aveva la maglia del Monaco) nell’ottobre del 2015 (3-1 per gli azzurri il risultati finale). Spalletti lo ha rimotivato, nel finale dello scorso campionato ha fatto il titolare, segnando a ripetizione. L’inizio con Di Francesco è stato problematico: non per via di rapporti malsani, ma per un infortunio alla schiena che gli ha condizionato la preparazione atletica. Partenza lenta, solo ora si sta facendo largo. Gioca con più continuità, accetta la panchina senza abbattersi. Che davvero sia l’anno giusto per la consacrazione definitiva? Può darsi, intanto si gode questa bella etichetta dell’uomo ideale. Che non è male.

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