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La Repubblica Bruno Conti o il baseball. Quanto pesa a Nettuno il numero 7 sulle spalle

(E. Sisti) Nettuno non è un paese che spieghi così su due piedi, anche se Bruno Conti provò a spiegarlo soltanto col piede sinistro. «Un miscuglio di etnie, gente scesa dalla campagna, comunità del sud, romani, marinai improvvisati e altro», confidava lo storico Tomassetti. Non è Anzio, non è Pomezia, Fogliano, Cisterna, Sabaudia, Cori e nemmeno Aprilia.

Nel luogo in cui lo scugnizzo napoletano e il pischello romano diventano “chio fregno”, il calcio si imparava sulle pozzolane rabberciate dei campetti dotati di porte con pali sempre più sbilenchi disseminati fra via Santa Barbara e Scacciapensieri, o magari oltre il poligono militare, verso Torre Astura. L’alternativa era il leggendario comunale di Tre Cancelli dove nel 1967, quando Bruno Conti aveva 12 anni ma aveva già ereditato dal padre il soprannome di Truerba, distorsione fonetica del ciclista spagnolo Trueba che il padre aveva ispirato agli amici (lo prendevano in giro perché pedalava per Nettuno recapitando a domicilio le bombole del gas caricate sul suo trabiccolo), l’erba era così alta e così poco curata che un gatto poteva rimanere nascosto a centrocampo per una settimana. Senza contare che una volta che eri lì e cercavi di far rimbalzare il pallone, di colpo rimpiangevi la terra sassosa di Cretarossa o del pur nobile “Grisetti” di Anzio.

Col passare degli anni, tra venti e afe, a Nettuno l’odore salmastro è diventato un colore indefinibile come la pozzolana dei campetti o la facciata di San Rocco. Porte e oggetti, sport e ozi, ladri e villeggianti, il pane di Paoloni e i gelati di Mennella sono stati le “vittime” di questa indefinibile tinta, come se il mare avesse chiesto a tutti di condividere il suo profumo. A Nettuno la famiglia della terra è tutt’uno con quella del mare. In paese il legame del sale, che verrebbe da immaginare come una robusta corda grigiastra, tiene stretti gli abitanti e i loro due sport, unendone i destini.

Il baseball, vanto della città dallo sbarco degli americani, tracima nel pallone, un baseball pieno di sabbia e di storia che reclama la sua genetica supermazia. A parte Conti, le glorie dello sport nettunese provengono dagli anni in cui Nettuno dominava il baseball con la stirpe dei Faraone e con Glorioso. Non c’è calciatore che a Nettuno non abbia giocato a baseball, magari solo per dire: «Mi dispiace ma non fa per me». Anche i romani in vacanza venivano stregati dalla combinazione di scarpini, mazze e guantoni. Bruno Conti e suo fratello giocavano a baseball. Per entrambi gli sport le ultime stagioni sono state faticose. Da un paio d’anni la squadra di baseball si è sdoppiata, ora ha due nature. Il Nuova Città Nettuno gioca in serie A, che però non è la massima serie. L’altra, il Nettuno Baseball City, milita nella Ibl, la Superleague, e non nasconde né ambizioni né stranieri come Eulogio De La Cruz, lanciatore dominicano di 32 anni che indossa lo stesso n. 7 che aveva Bruno Conti. Non corre buon sangue fra le due parrocchie. I titoli del passato ballano come fossero una multiproprietà. Molti auspicano una riconciliazione: «Così disperdono forze». L’ultimo titolo del Nettuno risale al 2001, come quello della Roma di cui Bruno era stato un’icona in movimento. Il calcio invece ha rischiato di sparire. Ad agosto la società fondata nel ‘26 non riuscì a iscriversi al campionato di promozione: lo stadio non era norma ma soprattutto mancavano i soldi. Sono ripartiti dalla 2ª categoria, protetti dai colori di sempre, il verde e il blu, e allenati da Andrea Furlan, 34 anni, che racconta: «Lavorano in fabbrica, ci alleniamo martedì e giovedì, è dura ma emozionante». Ieri ad Ardea hanno perso 3-2. Il n. 7 sulle spalle non è fisso, però il Bruno Conti del momento è Renato Tomassini, 25 anni, nettunese purosangue: «Lavoro nella vetreria Nocca, abbiamo installato materiale anche a casa di Conti». Questa è Nettuno. Un piccolo legame c’è sempre.

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