Doveva essere davvero pazzesca l’ansia di rinnovamento al Milan, dopo i 31 anni del precedente regno, se la terza sconfitta in 7 giornate è stata accolta quasi come una vittoria e se il derby con l’Inter, dopo la sosta, non viene affatto dipinto come lo spartiacque di una stagione approcciata con l’imperativo Champions, né tanto meno come l’ordalia per Montella. Il Ds Mirabelli prima della partita aveva lanciato un messaggio poco cifrato: «Sappiamo che ci vuole tempo per amalgamare una squadra, ma sappiamo anche che ne abbiamo poco». Alla fine si è dichiarato soddisfatto: «Nessuno ha la bacchetta magica, per 70’ abbiamo dominato un grande avversario. Il derby? Fa parte del campionato, ma è una partita speciale».
La difesa di Montella sa anche di autodifesa: erano in campo 9 neoacquisti e almeno 3 (Çalhanoglu, Musacchio, Rodriguez) hanno lasciato il sospetto di non essere del livello annunciato (anche attraverso propaganda mediatica). Montella, che in effetti non può magicamente assemblare tanti nuovi giocatori, sposa la linea: «Vedo la strada più in discesa. Abbiamo giocato alla pari con chi l’anno scorso ha fatto 23 punti in più. Suso e Bonaventura in panchina? Per usare il 4-3-3, servono esterni da 12-15 gol ciascuno, come Insigne e Callejon nel Napoli».
Alla narrazione minimizzatrice, che congela il collegamento tra l’esito del derby e la posizione dell’allenatore (oltre alle notizie inglesi su Conte tentato dall’idea di rilanciare il Milan), si associa l’Ad Fassone: più del programmato viaggio in Cina per verificare le strategie commerciali e finanziarie col presidente in contumacia Yonghong Li, sono diventate altre le urgenze: «Il piano di rientro volontario con l’Uefa, a novembre, e il rifinanziamento del debito col fondo Elliott, da completare a inizio 2018. Senza Champions, non sarebbe la fine del mondo». Eppure è l’obiettivo dichiarato ai vertici del fondo americano, presenti a San Siro con Paul Singer.