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Repubblica – A casa di Liedholm: “Scoprì Ancelotti a tavola dalla nonna”

Nils Liedholm

(M. Crosetti) – Quel colore che hanno le vigne dopo la vendemmia, come spoglie ma è solo apparenza. Anche il tempo fa scherzi del genere quando si comincia a ricordare. «Papà è mancato ormai da dieci anni, ma in fondo era il 5 novembre di un attimo fa, e lui è qui». Carlo Liedholm assomiglia sempre più al padre, è un omone in mezzo alla campagna, tra filari che non accudisce più. «Nel 2015 ho ceduto l’azienda, anche se i nuovi proprietari continuano a produrre il vino che si chiama come noi. Le stagioni cambiano, e passano. Bisogna saperlo capire in tempo». Tra queste colline, Nils Liedholm spese gli ultimi anni da patriarca del calcio e da nonno affettuoso. Era bellissimo venirlo a trovare per ascoltare le sue massime quasi surreali, e quell’accento indimenticabile («Antonelli grande jocatore, poteva essere il nuovo Cruyff»).

«Eppure non tutti lo seguivamo. Mamma, ad esempio, non aveva quel tipo di ironia e si arrabbiava molto». Vale la pena indugiare per un momento sulla storia della signora Liedholm, che se ne andò dal mondo prima del Barone e segnò così profondamente la sua vita. «Si conobbero a San Pellegrino Terme, dove papà era in ritiro col Milan e la mamma in vacanza. Lui indossava una tuta molto larga e lei lo scambiò per un manovale. La loro storia cominciò giocando a ping pong». Per poco, quella signora non condusse Liedholm dalla Signora: «Mamma Maria Lucia era nobile, una Gabotto di San Giovanni. E un suo zio, un Incisa di Camerana, era stato tra i fondatori della Juventus. Lei non tifava, però le sarebbe piaciuto che papà allenasse i bianconeri. Ci andò vicino due volte, la prima a metà degli anni Sessanta e l’altra quando arrivò Allodi, era mi pare il 1971. Papà e l’Avvocato si piacevano molto, in qualche modo si assomigliavano, una volta fecero notte insieme ma l’accordo non venne trovato. Perché mio padre pensava che alla Juve l’allenatore contasse poco: troppa azienda».

Dieci anni possono ferire la memoria più attenta, eppure il Barone ne sembra immune. «Lo ricordano spesso e in tanti, questo mi fa felice. Anche se lui era molto diverso da come credevano gli altri. Per niente freddo, anzi un passionale taciturno col carattere fortissimo che però sapeva tenersi dentro ogni cosa. So io quanto soffrì per quel gol di Turone, anche se disse soltanto: si vede che tutto lo stadio ha visto male e solo arbitro ha visto giusto. E so quanto patì la finale di Coppa dei Campioni persa all’Olimpico: no, non per il rifiuto di Falcao che non tirò il rigore, papà si rivedeva in Paulo Roberto, per lui era come un altro figlio. E lo stesso Ancelotti, che andò a prendersi nella campagna parmigiana quando era un ragazzino: mi raccontò di un memorabile pranzo cucinato dalla nonna contadina di Carletto, una vera matriarca: per papà contava molto la saldezza familiare nella scelta dei giocatori». Nessuno potrà mai dimenticare la grande Roma di Liedholm e neppure quel suo Milan che anticipò la modernità. Ma, di nuovo, la prospettiva rischia di sfocare l’orizzonte: «Papà è stato un innovatore, un precursore, tuttavia amava molto più la tecnica individuale della tattica: nel calcio tutto è già stato inventato, ripeteva. Invece lo elettrizzava il tocco di palla, lui stesso era un brasiliano nato per sbaglio in Svezia dove ancora si gioca quell’eterno, statico e piuttosto noioso 4-4-2».

Sarà così anche nello spareggio contro gli azzurri: «E attenzione, perché senza Ibra la Svezia è più squadra. Tosta, difficile farle gol». L’eredità di Liedholm è anche il premio annuale che lo ricorda, «ma stiamo pensando di cercare personaggi fuori dal calcio, ormai i valori umani e morali che ci interessano sono sempre più rari». Il ricordo è anche gioia, non solo nostalgia: «Ho passato con mio padre quasi tutti i giorni della mia vita e ancora oggi, quando devo prendere una decisione importante, mi chiedo cosa farebbe lui. Parlava poco, eppure lo ascoltavano tutti». Liedholm è sepolto al cimitero Monumentale di Torino, nella tomba di famiglia della moglie, vicino a quelle dell’ammiraglio Thaon di Revel e di Silvio Pellico. I fiori si portano ai ricordi. «E allo stesso modo, bisognerebbe tifare per gli uomini e non soltanto per le magliette. Invecchiando, ho capito che contano solo le persone».

Fonte: La Repubblica

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