Monchi, d.s. della Roma, è stato intervistato dal giornalista Berto Gallego riguardo al suo lavoro, sia da calciatore che da dirigente sportivo:
Monchi, com’è iniziato tutto?
«In ogni ricordo della mia infanzia c’è un pallone. Una strada, un campo ricavato in qualsiasi posto e amici giocando a calcio. Era solo un divertimento. Poi la scuola calcio e la prima squadra che mi ha tesserato. Ho iniziato a giocare in una squadra chiamata Aguila. Dopo un anno passai al San Fernando, la squadra della mia città. Un anno e mezzo dopo mi chiamò il Siviglia. Due stagioni nelle giovanili, nove in prima squadra, una da team manager e poi diciassette-diciotto da direttore sportivo ed eccomi a Roma. L’altro giorno ho letto un’intervista a Mertens in cui diceva che lui da bambino non aveva un idolo, voleva solo giocare a pallone: mi sono visto rappresentato in queste dichiarazioni, non c’era un portiere che fosse il mio idolo,uno che mi levasse il sonno… Volevo solo giocare».
Però hai detto che Rinat Dasayev è stato il miglior portiere della storia…
«Sì. Tecnicamente perfetto. Capacità di bloccare, slancio… Praticamente non andava mai per terra perché aveva un senso della collocazione e dei piedi strabilianti. Oggi il gioco coi piedi è molto richiesto nei portieri, ma all’epoca era qualcosa di unico».
In quel Siviglia hai giocato con calciatori del calibro di Zamorano e Davor Suker, che ricordi hai di loro?
«Nel Siviglia dei miei inizi c’erano ottimi giocatori, soprattutto in attacco. Prima Toni Polster, che per me è stato uno dei migliori attaccanti della storia del Siviglia, poi Ivan e Davor, ma anche Simeone, con cui ho giocato due anni. Per me era un sogno fatto realtà condividere lo spogliatoio con calciatori di tale livello. Ho anche avuto la sorte di avere grandissimi allenatori: Cantatore, Esparrago, Bilardo e il compianto e grande Luis Aragones… È stata una tappa della mia vita che dal punto di vista sportivo è rimasta un po’ nascosta, ma che mi ha fatto vivere esperienze uniche e splendide».
Il Siviglia ha sempre avuto grandi attaccanti…
«Luis Fabiano, Kanoute, Negredo, Bacca, Gameiro… Sarebbe difficile metterli in ordine…C’è anche Toni Polster che in area era una bestia, veramente incredibile».
Come fu la stagione con Bilardo?
«Innanzitutto rappresentò l’opportunità di giocare un anno con Maradona e di conoscerlo come persona. Viaggiammo molto per il mondo giocando amichevoli, era strano per una squadra che non era abituata a viaggiare. E poi la fortuna di essere allenato da Bilardo, che mi ha segnato molto non solo nel calcio ma proprio nella vita. Ciò che oggi sono e ciò che faccio l’ho appreso da lui: l’importanza data ai piccoli dettagli. Ci sono spesso cose che riteniamo secondarie, spesso lasciate al lato, che invece se curate e valorizzate diventano importanti. Su questo sono un po’ ossessivo. Carlos è uno che non lasciava nulla all’improvvisazione: io cerco di essere così».
E Diego…
«Diego era un buono. Buono soprattutto con le persone vicine a lui. La prima volta che l’ho visto pensai “Chissà se mi saluterà, chissà se mi parlerà”. Io ero stato uno degli ultimi ad arrivare nello spogliatoio del Siviglia, ero secondo portiere e con lui nacque un rapporto magnifico. Scoprii che era una bellissima persona e che la sua personalità non risentiva della sua enorme figura».
Prima Napoli, poi Siviglia… Forse cercava un po’ della sua Buenos Aires dopo l’esperienza non così buona a Barcellona…
«Sì, può essere. La sua forma di essere è certamente più vicina a Napoli e a Siviglia che a Barcellona. È caldo, sentimentale e aveva sempre bisogno della vicinanza dei tifosi».
Questo genere di aspetti si considera quando si compra un giocatore?
«Quando si compra un giocatore si considera tutto. Ci sono calciatori che trionfano in alcune circostanze e in altre non rendono, ad esempio fuori dal proprio paese. Non dobbiamo scordarci che il giocatore è una persona e se alcune necessità vengono meno può rendere meno».
Cosa hai imparato da Luis Aragones?
«Ho sempre detto che a livello tattico è stato il mio miglior allenatore. Quello che mi ha insegnato di più e quello che capiva meglio come giocava la squadra. Bilardo è stato il mio maestro a livello umano, a livello tattico il maestro è stato sicuramente Luis».
Quando ancora giocavi al Siviglia ci fu una generazione di talenti del vivaio molto buona, con Jose Mari, Marchena, Luque, che rimase svantaggiata dalla cattiva situazione della squadra, è così?
«Sì, è una generazione arrivata in un periodo sfortunato. La retrocessione e i problemi economici fecero sì che questi giocatori, che avevano vinto la massima competizione giovanile nazionale,non potessero esprimersi al meglio. Storicamente la cantera del Siviglia ha sempre fornito giocatori di ottimo livello».
Il prof Ortega, oggi preparatore nell’Atletico, ha influito nella tua mentalità?
«Personalmente mi ha cambiato la mentalità. Ha introdotto professionalità nell’alimentazione, nella cura e nel peso che non avevo mai visto. Io “casualmente” persi otto chili nei sei mesi in cui ci fu lui. Quando mi ritirai ero in formissima: lo avevo già deciso e avevo problemi alla spalla, ma fisicamente ero a un livello altissimo».