(A. Austini) Si può dire senza timori di smentita: è il momento più alto della Roma americana. Ancora senza titoli, ma ormai in pianta stabile nei piani alti del campionato e, finalmente, grande anche in Europa.
La vittoria del girone di ferro in Champions League arriva nel giorno dell’approvazione del progetto del nuovo stadio, la squadra ci crede sempre più, la società gongola e si appresta ad accogliere a breve anche il main sponsor. Ma il segnale più importante percepito a Trigoria è un altro: i tifosi non sono mai stati così vicini a questa proprietà, dopo tante delusioni, qualche gioia rara, polemiche, illusioni, critiche, menzogne e progetti abortiti troppo in fretta. E se l’Olimpico si sta riempiendo un po’, pur lasciando ancora dei vuoti da colmare, il futuro impianto di proprietà potrà dare la svolta per raggiungere il livello della Juve e delle big d’Europa.
Non è un caso che Pallotta, come raccontato dal dg Baldissoni, martedì abbia chiesto dall’America: «I tifosi finalmente sono contenti?». Adesso si, pur dovendo coronare il tutto con un trofeo che manca da quasi un decennio. Il presidente non ha mai perso l’ottimismo e continua a fidarsi totalmente dei dirigenti che ha messo ai posti giusti a Trigoria. Quest’anno non verrà in Italia per la festa di Natale come era solito fare, ma la sua assenza non è mai stata percepita come un reale problema a Trigoria. Semmai, a voler usare la battuta di un ex dirigente, «il vero guaio è quando Pallotta è qui».
Veleni del passato a parte, adesso si respira un’armonia totale, figlia ovviamente dei risultati. Gran parte del merito va a due uomini che si sono inseriti in fretta nei meccanismi giallorossi: da una parte il diesse Monchi, dall’altra Di Francesco che è il personaggio in copertina di questi giorni. Due «normali» che hanno riportato serenità e fatto tornare l’attenzione sul campo, il calcio. Il tecnico è l’emblema della nuova Roma. La concretezza sembra la sua dote migliore, ma la squadra l’ha conquistata col lavoro di tutti i giorni. Superate le difficoltà iniziali e qualche naturale perplessità scaturita dall’addio di Spalletti, i giocatori ora sono tutti convinti che il sistema di gioco portato da Di Francesco sia quello giusto per vincere. Il pressing collettivo è la nuova arma micidiale dei giallorossi, che seguono uno spartito a prescindere dall’avversario: l’identità definita è segno di grande squadra.
Eusebio fa ruotare tutti, ma non è un tipo tenero. Anzi: quando c’è da dire qualcosa ai calciatori, non usa giri di parole. Ne sanno qualcosa Dzeko e De Rossi, solo per citare due esempi. Il rapporto tra allenatore e dirigenti, poi, si è cementato in fretta. Monchi ha il merito di aver scelto un tecnico che non poteva conoscere in profondità, Di Francesco è stato bravo a confermare da subito le buone impressioni del direttore sportivo. Una qualità particolarmente apprezzata? A differenza di Garcia e Spalletti, non ha il minimo desiderio di protagonismo e non ha imposto scelte particolari in settori che in teoria non gli competerebbero. Esempio: a inizio anno aveva ripristinato il ritiro pre-gara in albergo, ma quando gli è stato fatto notare che non porta chissà quali benefici, ha accettato di buon grado di tornare a vivere le ultime ore prima delle partite casalinghe a Trigoria. Dettagli che spiegano la «normalità» dell’ abruzzese, molto più concentrato su quello che c’è da fare piuttosto che su quanto vada detto nelle interviste. Un risultato l’ha già ottenuto e non glielo toglierà nessuno: la Roma ha giocato il miglior girone di Champions League della sua storia. Ma il bello deve ancora venire.