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Gerson: “Grande privilegio allenarmi con Totti. So cosa significa il sacrificio. Barcellona? Ce la giochiamo”

Gerson

Intervista al centrocampista brasiliano Gerson, talento classe ’97 della Roma che sta finalmente cominciando a farsi notare in maglia giallorossa:

Sull’infanzia e le responsabilità.
Per me la pressione è una cosa normale. Da quando sono piccolo sono abituato ad assumermi le mie responsabilità: ho avuto una vita, quando ero più piccolo, fatta anche di sofferenze. Ho iniziato molto presto a lavorare per aiutare la mia famiglia. Poi, grazie al mio talento calcistico sono riuscito a cambiare la vita della mia famiglia. È una cosa che mi rende orgoglioso, così come sono orgoglioso di essere giovane e di avere già una mia famiglia. È vero che ci sono molte persone che dipendono da me, ma è una cosa che mi rende felice. Saudade? Non è né più né meno il tipo di nostalgia che avrebbe un italiano se andasse a vivere in Brasile. È normale avere un po’ di nostalgia di casa ma la vita è fatta di lavoro, soprattutto, e sono qui per cogliere questa opportunità. Forse mi manca un po’ mia madre, non viene qui spesso. Non le piace viaggiare. Ho avuto un’infanzia difficile: in famiglia siamo in quattro, oltre a me ci sono altri tre fratelli, soltanto mio padre lavorava e qualche volta capitava che mancasse da mangiare. Quello che non mancava mai erano i fagioli. Ero triste della situazione perché volevo aiutare e non lo potevo fare. I miei amici dell’infanzia sono quasi tutti finiti nel giro della criminalità o in carcere, dove sono cresciuto io. E chissà io cosa avrei fatto (se non avessi fatto il calciatore, nda). Io ho sempre avuto la testa sulle spalle, non credo che avrei fatto quella fine, anche se a volte le circostanze della vita sono imprevedibili“.

Gli inizi da calciatore.
“Inizi a giocare che sei piccolo, insieme a tantissimi ragazzi, e non sai se riuscirai ad arrivare in fondo ad una strada che è piena di ostacoli, di difficoltà. Poi un giorno eravamo in casa e c’era una bottiglia d’acqua sul tavolo… ad un certo punto è caduta, e io l’ho calciata al volo. Mio padre era lì con me e ha intravisto del talento. Da quel momento si è convinto che io sarei diventato un calciatore. Nessuno gli dava credito, lui è stato l’unico a crederci. Mio padre innanzitutto è stato il mio primo allenatore. Eravamo in una condizione economica difficile ma lui non si è perso d’animo, ha preso un patentino da allenatore facendo dei corsi pubblici con lo scopo di insegnarmi quello di cui avevo bisogno, quello che mi mancava calcisticamente. Mio padre è una delle persone che più ha creduto in me, in più di un’occasione si è privato di qualcosa per assecondare la mia carriera da calciatore. È vero che sono arrivato a Roma anche grazie al mio talento e alle mie forze. Ma sono consapevole che senza di lui non sarei qui oggi. Dopo è stato tutto davvero fulmineo. È stato veloce, ma è stata anche la realizzazione di un sogno. Quando si è nel settore giovanile in Brasile si parla tra ragazzi e il sogno di tutti è quello di arrivare in Europa. Ma bisogna essere preparati anche mentalmente per fare questo salto. La vita è fatta di opportunità”.

Sulla maglia di Totti regalatagli da Walter Sabatini.
“Era un regalo di cui ero felice, abbiamo fatto una foto: per me non c’era nient’altro. Poi c’è sempre qualcuno pronto a polemizzare, a interpretare le cose in maniera negativa. Però dal mio punto di vista e dal punto di vista delle persone che erano lì era un semplice regalo, una bella maglia. Arrivato a Roma ho avuto subito la fortuna e il privilegio di allenarmi al fianco di Totti e di assistere in prima persona al suo addio al calcio. È un ricordo che conserverò per sempre. È stato incredibilmente emozionante”.

Il primo anno alla Roma.
“Il club all’inizio aveva la percezione che avevo anche io: cioè di non essere ancora pronto per il calcio italiano e il calcio europeo. E riteneva fosse una buona idea quella di cedermi in prestito per fare esperienza. Mi rendevo conto che mi mancava ancora qualcosa però volevo restare nel club, volevo imparare ciò che mi mancava qui. Su questo ho insistito molto, fino alla fine, perché sapevo che dovevo migliorare, ma non volevo lasciare il club. Contro la Juventus effettivamente rimasi un po’ sorpreso (di essere schierato titolare, nda) perché era un periodo in cui non stavo giocando ed era una partita importantissima. In quella circostanza mancò un po’ di preparazione mentale da parte mia. A partire da quella partita, sono venuti fuori molti dubbi su quello che era il mio gioco. Dopo quella partita con la Juventus sono stato massacrato. Poi si parlò di un possibile prestito al Lille… ci sono state un po’ di situazioni che mi hanno lasciato un po’ triste, abbattuto. La delusione è durata poco perché la vita va avanti velocemente e se ci si sofferma troppo a piangersi addosso, a farne questioni di ego, ti passa davanti e neanche te ne accorgi. Questa è una cosa che mio padre mi dice da quando sono piccolo: quando si attraversano momenti di difficoltà, il tuo ruolo è quello di restare sempre a testa alta, di guardare avanti senza autocommiserarsi. Le cose non sono andate bene all’inizio. E la colpa non era né del club, né dell’allenatore… la colpa era mia, perché non ero pronto. Un calciatore deve essere sempre pronto, non soltanto fisicamente ma anche mentalmente”.

La rinascita.
“Finita la stagione, sono tornato a casa e anche rivedendo amici e familiari sono entrato in un ordine di idee diverso, ho analizzato la situazione, ho capito dove ho sbagliato e sono tornato con la ferma volontà di fare meglio. Penso sia stato questo a dare la svolta della mia carriera in Europa. E credo che la morale sia di non dare la colpa agli altri, ma solo ed essenzialmente a se stessi. L’applicazione difensiva? È qualcosa che sono stato obbligato ad imparare qui in Italia. Però mi ha fatto e mi sta facendo molto bene perché invece in Brasile c’è più un calcio di qualità, tecnico in cui non si bada troppo alla fase difensiva, alle marcature. Appena arrivato qui tutti mi hanno detto che era necessario imparare a marcare, ad aiutare la squadra. Una cosa che ho imparato qui in Italia è che spesso le cose più belle sono le più semplici. A volte vuoi fare qualcosa di straordinario per impressionare gli altri e finisci per avvitarti su te stesso. Altre volte, invece, fai qualcosa di semplice e tutti restano colpiti dalla bellezza di quel gesto. Ci sono giocatori più propensi a giocare di prima o a due tocchi. A me, in certi momenti della gara, per assumermi delle responsabilità, piace tenere la palla”.

I modelli.
“Da quando ho messe piede qui, Nainggolan ha sempre cercato di aiutarmi, mi piace parlare con lui e davvero lo ammiro per come interpreta il calcio, per come va in campo. Ha una grinta, una forza e un carattere straordinario, a volte gioca anche in condizioni fisiche non perfette tanto è forte il suo desiderio di aiutare la squadra. Lo guardo e spero di potermi avvicinare a quel tipo di giocatore. Non devo migliorare un singolo aspetto, la velocità, la forza, il tiro, devo concentrarmi per migliorare tutte queste cose insieme. Tutti i calciatori devono avere nella propria testa la volontà di migliorare, di imparare qualcosa sempre. Questo vale per tutti, anche per Messi, Cristiano Ronaldo, Neymar, per i migliori giocatori del mondo: puoi fare sempre qualcosa per migliorarti. Questo vale ad ogni età: a 20 anni come a 40. È importante fare una vita da professionista: andare a letto presto, venire al campo d’allenamento, allenarsi duramente, farlo tutti i giorni con questo stimolo, con questa mentalità di imparare. È soprattutto una questione mentale, la volontà di pensare che si può sempre migliorare”.

Il rapporto con Ronaldinho.
“Conoscerlo è stata una delle cose più belle che mi è capitato nella vita. Il consiglio che mi ha dato è quello di essere sempre concentrato, di lavorare sempre duro perché la strada sarebbe stata difficile, complicata. Ma anche che se uno si impegna, se lavora con impegno, allora Dio gli darà sempre una mano. Ancora oggi prima di scendere in campo mi piace ripetere, a mo’ di litania, tra me e me, una frase che diceva sempre, che era: Vamos a ser feliz. Secondo me questa è una delle chiavi non soltanto nel calcio ma anche nella vita. Certo, si gioca per vincere dei titoli, per guadagnare del denaro… ma per me è importante anche andare in campo ed essere felici”.

Il presente.
“Giocare a Londra col Chelsea? Per un calciatore professionista tutte le partite diventano importanti, non soltanto quelle contro il Chelsea ma anche quelle con le piccole squadre. In questo senso, io cerco di allenarmi sempre bene perché non sai mai quando arriverà l’occasione di giocare, è una cosa che ripeto in ogni intervista. È necessario allenarsi sempre al meglio perché non sai mai quando l’allenatore riterrà che meriti un’occasione. E non devi lasciarti sfuggire l’occasione perché non sai mai quando ricapiterà. Giocare al Camp Nou è un sogno. Il Barcellona è una delle migliori squadre del mondo. Andiamo lì per giocarci le nostre possibilità, per cercare di qualificarci. Sappiamo che sarà una partita difficile, ma lo sarà anche per loro. Anche incontrare Messi è uno dei sogni che avevo. Ma ne ho molti altri ancora da realizzare”.

Fonte: L’ultimo uomo

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