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La Repubblica Quei corpi perfetti e l’illusione perduta dell’eternità

(M. Crosetti) Taccola, Foè, Fehér, Puerta, Morosini: il lungo elenco di morti improvvise che hanno sconvolto il calcio e il senso d’impotenza in chi sopravvive. Quanta fragilità nell’apparente illusoria perfezione, quanti agguati anche dentro un corpo giovane, forte, allenato. Queste sono morti inconcepibili, come quando se ne va un figlio. È un dolore di segno speciale perché del tutto privo di senso, la meravigliosa macchina dell’atleta che come ogni altra può ospitare vuoti, mancanze, piccole sbavature capaci però di scatenare il crollo senza rimedio. Non lo si accetta perché non lo si comprende. Semplicemente accade. Corpi che si accasciano in campo senza contrasti o urti, occhi che ruotano all’indietro nell’ultimo soffio di vita, a volte sotto centinaia di migliaia di sguardi.

Quante volte lo abbiamo visto, e oggi la rete moltiplica il repertorio di quelle immani tragedie individuali ma subito di tutti, come se la morte nel video non finisse mai. Oppure ci sono ragazzi che si spengono nel segreto di una stanza come il povero Astori, e non fa certo meno male. Sono più di quarant’anni dal pomeriggio di Perugia in cui morì Renato Curi. Diluviava, il cielo era di peltro. Curi scattò e crollò da solo, solo. Era il 30 ottobre ’77, lui aveva appena 24 anni anche se quei baffoni lo mostravano più grande. Otto anni prima, un infarto negli spogliatoi dell’Amsicora si era portato via Giuliano Taccola che di anni ne aveva 26: mai si chiarì davvero quel destino. Da allora è un triste repertorio di accadimenti vicini o remoti. Piermario Morosini (26 anni) che a Livorno casca in ginocchio e per due volte cerca di rialzarsi mentre la vita gli scappa dal cuore. Il camerunense Foè (28) fulminato sul campo di Lione contro la Colombia, il 26 giugno 2003. L’ungherese Fehér (25) che si piega sul tronco, porta le mani alle ginocchia, cerca di riprendere il filo ma non può; attorno, tutti gli altri giocatori sgomenti comprendono in un attimo. Morire così, nel pieno del tempo migliore, per mano di quello che Joseph Conrad chiamava il compagno segreto, il silenzioso nemico acquattato nel petto in attesa di colpire, subdolo e maledetto.

La sorte di Patrick Ekeng (26), di Antonio Puerta che sopravvisse tre giorni alla crisi cardiaca col cervello ormai perduto, oppure Dani Jarque (26) ucciso da un infarto mentre era al telefono con la fidanzata, o l’irlandese McBride (28) che si arrese alla sincope tra i muri di casa a Derry. Si muore all’improvviso, in Italia accade ogni anno a mille ragazzi in apparenza sani e invece portatori di guasti invisibili e silenziosi, la cardiomiopatia, la sindrome del QT lungo, l’aneurisma, l’ictus che mica colpisce solo i vecchi o i logori, la fibrillazione che fa vibrare l’atrio come le ali di una farfalla. C’è chi ha nel petto una minuscola fibra cardiaca di troppo, come un cavetto elettrico che lì non dovrebbe stare e manda in corto i battiti. Non c’è rimedio ma non possiamo darcene ragione. Succede da sempre e non solo nel calcio, come quando al cestista Luciano Vendemini (25) si spezzò l’aorta mentre firmava autografi, era sempre il maledetto ’77 di Curi, oppure quando Vigor Bovolenta (38) crollò sul parquet di Macerata dopo una battuta, il 24 marzo 2012. È l’istante impossibile, il fotogramma inaccettabile in cui tutto finisce e il corpo perfetto dell’atleta smette di fermare il tempo per noi comuni mortali, dicendo addio al sogno di eternità e perenne giovinezza che lo sport ci racconta. Così, tutto quello che ci sembrava intatto si sgretola e il compagno non più segreto ci mostra il suo terribile sorriso.

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