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Roma, l’identità di carta

Nzonzi e Mirallas

(U. Trani) – Come se non bastassero Allegri, Spalletti, Ancelotti, Simone Inzaghi e Gattuso, ecco che a guardare adesso dall’alto Di Francesco si sono aggiunti pure De Zerbi (spinto da Federico, il figlio di Eusebio) e Mazzarri. In più c’è sempre Pioli che, pur avendo 16 punti come il collega giallorosso, è avanti (miglior differenza reti). Questa non è la Roma. Che in campionato non si vede. Appare, però, la posizione in classifica, con quel 9° posto che certifica il passo indietro dopo il weekend. La situazione diventa allarmante quando si va a misurare il distacco dalle migliori: meno 15 dalla capolista Juve e meno 9 dalle seconde Inter e Napoli. Giù dal podio, esclusa dalla zona Champions, il 4° posto è a 5 punti, e anche da quella di consolazione dell’Europa League. Fuori da tutto in serie A. Se non ci fosse il 1° posto in coppa, 6 punti nel gruppo G come il Real Madrid (è dietro per la differenza reti pure se ha vinto lo scontro diretto al Bernabeu), il raccolto giallorosso nelle 14 partite stagionali sarebbe deprimente. Motivo che rende ancora più delicata la sfida di mercoledì a Mosca con il Cska.

SENZA COPIONE – I numeri inchiodano la Roma. Ce ne sono per tutti i gusti. È sufficiente ricordare che sono 9 i punti in meno nel paragone con il percorso nelle prime 11 giornate dello scorso torneo, e che Olsen già conta più del doppio dei gol (14) incassati dal suo predecessore Alisson. Ma le cifre, più o meno pesanti che siano, diventano solo la conseguenza delle prestazioni. Sciatte e anonime. Giallorossi, dunque, irriconoscibili. Nel gioco e nello spirito. Perché se manca la traccia, spesso evapora pure la personalità. E lasciamo stare la testa. Che è l’alibi buono per ogni stagione quando bisogna motivare il flop. Il coro è spesso stonato e vive sull’individualità. Ma recitare in proprio, non porta da nessuna parte. Il solista, anche il più bravo e ispirato come lo è ad esempio Lorenzo Pellegrini, non potrà mai sostituirsi al collettivo.

NESSUNA CERTEZZA – I 23 titolari schierati da Di Francesco si sommano alle 14 formazioni diverse in 14 partite. Il problema non è il turnover degli interpreti da un match all’altro, ultimamente per la verità ridotto al minimo, quanto la girandola di posizioni, cambiate spesso anche in corsa. La Roma non si comporta da squadra perché, a differenza dalle altre big, non è la stessa. Ogni volta è come se si ricominciasse da capo. Dall’ultimo addestramento e dal nuovo esperimento. L’identità non esiste, a prescindere dal sistema di gioco. E non c’è da stupirsi. Perché ogni giocatore è come se dovesse studiare il movimento del compagno. Che in una gara è a destra, in quella dopo al centro, a sinistra, in difesa, più avanti, più indietro e in mezzo. La caccia al tesoro in campo. Senza mai trovarlo. Faticano i protagonisti nella laboriosa e lenta ricerca. Impauriti, scontati e, dunque, impotenti. E senza ritmo, l’avversario ha sempre il vantaggio di decidere come comportarsi.

EXIT STRATEGY – Di Francesco, anche prima di Firenze, ha garantito che, insistendo sul 4-2-3-1 per non disorientare il gruppo, avrebbe messo ogni interprete nel proprio ruolo per andare sul sicuro. Poi, però, ha schierato Lorenzo Pellegrini da mediano e Zaniolo, mosse inedite in questa stagione. E anche giuste, considerata la performance di entrambi. Inutili se non si dà continuità proprio alle scelte. La Roma deve essere una. Almeno nella formazione, senza alcun ripensamento. I titolari separati dai panchinari. Divide et impera. Come accade a Milano, Torino e Napoli. E anche a nord della Capitale.

Fonte: Il Messaggero

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