(M. Mensurati) – «Sono Francesco Totti e mi hanno fatto smettere». Era il primo giorno del corso allenatori di Coverciano, e ogni candidato era stato invitato a presentarsi agli altri con una breve sintesi della propria carriera. Il capitano si alzò dalla sedia e con quella faccia spenta e senza sorriso che gli abbiamo visto tante volte da quando ha dovuto sostituire la fascia sul braccio con la cravatta sociale, disse solo questo: «Sono Francesco Totti e mi hanno fatto smettere». A pensarci oggi, quelle poche parole appaiono rapide e illuminanti come certi assist. Dentro c’era tutto. La consapevolezza del proprio ruolo e del proprio talento, l’accusa esplicita nei confronti di una società, la Roma made in Usa che, a suo avviso, non lo ha mai amato o, almeno non quanto doveva, la voglia incontenibile di continuare a giocare a pallone. Ma soprattutto, nascosta nella scelta di guardare al passato piuttosto che al futuro, a quello che era stato piuttosto che a quello che avrebbe potuto essere, c’era evidentissima la paura. Del resto, parlando direttamente al suo popolo, in quella sera commovente del maggio 2017, lo aveva ammesso lui stesso: «Adesso ho paura. E non è quella che si prova di fronte alla porta quando devi segnare un calcio di rigore. Questa volta non posso vedere attraverso i buchi della rete cosa ci sarà “dopo”».
Aveva ragione Francesco ad aver paura. Perché “dopo”, c’era solo questo. C’era la noia e la fatica di un nuovo mestiere difficile da imparare, c’erano le complessità e i sotterfugi di un ambiente che sotto i riflettori e lontano dal talento vive di lotte di potere e, spesso, di colpi bassi, ma c’era soprattutto la malinconia del tramonto, della gloria che, alla fine, dura sempre solo un attimo. E così, oggi che Totti si separa, forse per sempre, da questa Roma non più sua, sarebbe disonesto non chiedersi di chi sia davvero la responsabilità di una storia finita male. Se sia di una società che, dopo l’ennesima stagione sacrificata sull’altare di quel dio bizzoso e imprevedibile che è lo Spogliatoio, ha deciso di cambiare pagina affidandosi a un allenatore “esterno” e senza amici italiani, uno nato in Mozambico, cresciuto in Portogallo, maturato calcisticamente in Ucraina. Oppure se sia del dirigente Francesco Totti che in due anni non ha saputo reinventarsi, e comunque non è riuscito a recuperare alcun tipo di centralità all’interno di un progetto. Da domani e chissà per quanto tempo, Roma — una città maledetta da una strana inclinazione all’autofagia — non parlerà d’altro. I tottiani rinfacceranno agli americani, il ruolo di Baldini (il consulente societario da sempre individuato come il “nemico di Totti” numero uno), l’ipocrisia di Pallotta, finanche le scelte di Spalletti. A loro risponderanno quanti, in questi mesi, a Trigoria e non solo, hanno vissuto con insofferenza la vita mondana dell’ex Capitano, sempre pronto a mettere la Roma in secondo piano a favore di qualche evento personale — la presentazione di un libro, le riprese di una docufiction, i tornei di calcetto. L’impressione è però che quello che si preannuncia come l’ennesimo drammone sportivo della Capitale, in realtà non sia altro che la versione romana dell’eterna tragedia personale del grande campione che, arrivato al momento di chiudere la propria carriera, semplicemente non ci riesce, o comunque non riesce a farlo come vorrebbe o dovrebbe, e che, dunque, dopo tante luminose vittorie, finisce per conoscere la più amara delle sconfitte.
Fonte: la repubblica