(P. Galassi) – Sarà l’aver intrapreso un cammino diverso da tutti gli altri, un destino atipico, lontano dalle rotte di chi a fine carriera si guarda intorno per guadagnare in un anno o due quello che non ha visto in un decennio. Sarà l’essere sbarcato nel posto di cui tutti parlano, ma dove sembra scellerato venire a vivere e giocare a 36 anni suonati, dopo una vita da icona della caput mundi. Sarà tutto questo e molto altro che non sappiamo, ciò che fa sì che Daniele De Rossi da 5 giorni a questa parte abbia un sorriso enigmatico e sornione dipinto in volto. Picaro, nel gergo rioplatense. Voci a cui sono da sempre abituati i tifosi del Boca Juniors, quelle che descrivono i campioni europei sul viale del tramonto ansiosi di vestire la camiseta azuloro e giocare nel cuore del quartiere più rustico, per usare un eufemismo, della capitale argentina. L’anno scorso Gigi Buffon e Andrea Pirlo, in altre epoche Hristo Stoichkov: tutti pazzi per il Boca, ma fino a un certo punto. Roby Baggio, che nel sud della provincia di Buenos Aires aveva trovato il suo rifugio (i 360 ettari della estancia La Chiquita) racconta di essere rimasto ipnotizzato, ai tempi in cui aveva ancora il codino, nel vedere la curva della Bombonera in festa nonostante il Boca stesse perdendo 3-0. Negli stessi anni, un De Rossi ancora “pischello” guardava in tv le ultime partite di Maradona, con in testa una ciocca dorata che fuori dallo stadio faceva tingere a bomboletta spray per 5 pesos.
Ora, in quel tempio del fútbol, De Rossi si affaccia per la prima volta come giocatore, non convocato ma sotto contratto. Una passeggiata pensierosa sul prato giovedì scorso, sotto la pioggia e con lo stadio aperto solo per lui, accompagnato da Nicolas Burdisso, l’amico dei tempi di Trigoria oggi ds Xeneize capace di convincerlo ad attraversare l’oceano. E venire dove sono tornati gli argentini Doc come Diego Milito, e quelli mezzosangue come Camoranesi e Trezeguet, forgiati a queste latitudini. Altri che fanno gli auguri a Daniele, come Batistuta, si sono ben guardati da tornare in questo delirio. Un fútbol sempre più brutto e duro, dove l’essere ospite o locale fa la differenza in molti sensi, basti vedere la triste finale di Libertadores Boca-River, giocata tra Buenos Aires e Madrid. Dopo uno spot del genere, chi sarebbe venuto fin qua per chiudere (o quasi) la carriera? «È un compromesso enorme quello di De Rossi, una decisione che richiede valore. Non è un caso che a convincerlo sia stato Burdisso, un altro con un carattere forte, l’unico argentino capace di sgridare Leo Messi in campo (“si corre fino alla fine, moccioso”, le parole alla Pulga nella Coppa America 2011, ndr). Come quando De Rossi rispose a Ventura di far entrare Insigne e non lui nello spareggio mondiale con la Svezia». Ezequiel Fernandez Moores, storica firma de La Nación e amico di Eduardo Galeano, cerca di andare oltre lo show mediatico di questi giorni: «Mi piace la sua personalità. Credo abbia un suo codice, una lealtà verso il pallone e verso sé stesso. In un fútbol come quello argentino, fatto di viveza criolla e furbizie, arriva un giocatore capace di confessare un gol di mano (Roma-Messina, 2006) e farselo annullare, cosa che sarà successa 3 o 4 volte nella storia del fútbol mondiale». Da una dirigenza fredda con i propri simboli a una capace di allontanare idoli non allineati come Riquelme e Carlos Bianchi, ricorda Roberto Parrottino, cronista del quotidiano Tiempo Argentino, in riferimento al patron Angelici, signore dei Bingo e delfino del presidente argentino Mauricio Macri. «De Rossi nella Roma giocava contro il potere dei forti. Il Boca sarà anche un club di tradizione popolare, ma è la squadra del potere» ci avvisa ora Moores. «De Rossi ha firmato per una sorta di Juve dell’Argentina». Ma questo meglio non dirlo a Daniele.
Fonte: La Repubblica