Torna a parlare José Mourinho e lo fa in un’intervista rilasciata all’interno del programma ‘Federico Buffa Talks’, col giornalista e Federico Ferri.L’allenatore della Roma racconta la sua carriera, dagli inizi a Setubal passando per le varie tappe che lo hanno reso uno degli sportivi più vincenti nella storia.
Da dove partiresti per raccontare la tua storia?
“Non partirei (ride, ndr). Pensi che sia una storia sufficientemente interessante? La mia storia è la mia vita, l’ho vissuta fino ad oggi e per me è normale, niente di straordinario. Magari da fuori avete un’altra percezione, per me è normale”.
Hai iniziato insegnando ai disabili a Setubal.
“Ero in difficoltà in quel periodo lì, avevo una laurea in Scienze Motorie. Dopo tre anni, ognuno di noi sceglieva il proprio futuro, la sua specializzazione. In quegli anni sono stato ovviamente nel calcio, nei campi di allenamento e lavoravo con bambini con Sindrome di Down. Non ero all’altezza della dimensione di quel lavoro lì, mi ha salvato il rapporto che ho creato con quei ragazzi lì, avevano tra i 12 e i 17 anni, io ne avevo 23-24 e mi guardavano come uno di loro. Sono riuscito a fare calcio per loro e creare con quella squadra un rapporto umano. Non sono io il genio di quella frase, ma di un mio professore universitario che mi diceva che io non sarei stato allenatore di giocatori ma di uomini che giocano a calcio. Tornando a quel periodo lì con la scuola di educazione speciale, quella è stata la mia salvezza. Sono stati due anni straordinari per me”.
Cosa ti ha lasciato quel periodo?
“Amici, non tutti ma quando torno a Setubal qualcuno trovo. Sono rapporti eterni. Questo per me è la cosa più importante”.
Cosa ti sei portato dietro da Setubal?
“Setubal (ride, ndr). Sono stato un ragazzo veramente felice, fortunato e felice. Fortunato per gli amici, felice per la famiglia. Tutto quello che io ricordo di Setubal, ogni giorno fino a quando sono andato via, in quei 26 anni che sono stato a Setubal tutti i ricordi sono assolutamente fantastici. Per me è un periodo di libertà, una generazione che non deve avere alcuna invidia delle nuove generazioni. Abbiamo vissuto in maniera speciale. A Setubal non sono neanche José quando torno, quando torno sono Zé con una zeta e una è. Vado in giro come voglio, con la giacca, pantalone corto, con una t-shirt bruttissima, la gente mi saluta senza fermarmi, mi chiedono come sto perché è casa mia. Posso avere casa a Londra, a Roma, posso aver girato il mondo ma come famiglia siamo stati fortunati. Abbiamo vissuto a Londra, Madrid, Milano, Roma, abbiamo avuto una vita che mi ha permesso di viaggiare ma Setubal è Setubal. Non abbiamo la Fontana di Trevi ma abbiamo un’altra fontana che, se bevi dell’acqua da lì, sarai fortunato tutta la vita. E io l’ho bevuta tanto da bambino: uno che la beve è innamorato di Setubal. Se sei andato lì e qualcuno ti ha parlato di me non è mio amico o familiare, i miei amici e la mia famiglia non parlano di me (ride, ndr)”.
Quando il calcio è entrato dentro casa tua?
“Tre ore dopo che sono nato. Mio padre aveva la partita alle 15:00, io sono nato a casa alle 7:00. Alle 10:00 del mattino mio padre aveva lasciato l’albergo per vedere il suo secondo figlio, la squadra è entrata in casa a vedermi, quindi il calcio è entrato subito dentro di me”.
Tuo padre?
“Sono orgoglioso di quello che ha fatto come calciatore e come allenatore, mi ha fatto essere un bambino super orgoglioso, penso all’uomo e al papà che è stato. Non voglio parlarne troppo perché mi commuoverei troppo, il tempo passa ma il feeling no”.
Che ricordi hai del calcio in Portogallo?
“Quando hai una famiglia che vive nel calcio e quando hai un padre che ha giocato solo per due club e poi ha allenato tante squadre, magari la gente non lo capisce ma il calcio diventa la nostra vita, per noi il calcio non è uno scherzo. Quando è così, tu cresci con questa mentalità, mi ha aiutato a guardare la mia professione in un’altra maniera”.
Com’eri da calciatore?
“Ero più bravo di quello che la gente può pensare, però ho l’umiltà di dire che sono arrivato al mio massimo livello. Ho giocato tra Serie B e Serie C, in Serie C ero un grandissimo livello. Sono arrivato dove ho potuto. Ho scelto di allenare e ho fatto una scelta consapevole del fatto che come calciatore avevo fatto il massimo. Quando ho guadagnato per la prima volta, il calcio diventa una cosa diversa. Il calcio è una passione e mi diverto ancora con il calcio, ma faccio la mia professione con la maggior serietà possibile”.
Lasci Barcellona e torni in Portogallo.
“A Barcellona sono stato quattro anno, ho lavorato un anno con Robson e quattro anni con van Gaal, quest’ultimo dopo l’esonero mi ha detto che avrebbe allenato la sua nazionale e mi ha consigliato di restare o iniziare una carriera da solo. Van Gaal era uno molto educativo, spesso faceva guidare gli allenamenti dagli assistenti e all’epoca non era comune mentre oggi lo è. L’esperienza di allenare i migliori giocatori del mondo in quel momento era importante ed educativo per un giovane assistente come ero io. Ringrazierò sempre van Gaal”.
Hai sempre pensato di poter diventare primo allenatore?
“Quando van Gaal lascia Barcellona, io sono rimasto con il nuovo allenatore e con il nuovo presidente e il vice che mi conosceva bene e che mi ha chiesto di aiutare il nuovo tecnico. Non era la mia spiaggia, non mi sentivo bene. Ho fatto il ritiro precampionato con loro, poi arrivo a casa ad agosto e dico a Matilde (la moglie, ndr) che non ero felice. Non è più la mia gente, però ho un contratto fantastico perché il mio contratto come assistente era fantastico. Avevo una bambina di 3 anni e un bambino di 4-5 mesi, ho avuto bisogno di fissare quello che avrei voluto fare. Se sei consapevole del tuo potenziale, allora andiamo a casa. Moglie e figli sono andati in aereo, io sono andato in macchina che è ancora lì tra l’altro, le sono molto affezionato, è una Volvo”.
La finale di Supercoppa Europea contro il Milan?
“Mentalmente, è stata una partita super importante per noi. Venivamo dalla vittoria in Coppa UEFA con gol di Derlei al 120’, la vinciamo e giochiamo la Supercoppa a Montecarlo ad agosto e a settembre inizia la Champions League. Eravamo una squadra di bambini, io ero un bambino a quel livello lì, a parte Vitor Bahia non avevamo giocatori di esperienza. Avevamo tutti un punto interrogativo: cosa avremmo potuto fare in Champions? Nel girone abbiamo pescato il Real Madrid di Figo, Zidane, Ronaldo, Raul, Roberto Carlos. A Montecarlo abbiamo giocato contro il Milan di Ancelotti – che ancora oggi per me è il top dei top -, c’erano Shevchenko, Rivaldo, Maldini e per noi perdere 1-0 e giocare come abbiamo fatto è stato di un’importanza clamorosa. Sembravamo ragazzi persi nella giungla dopo i primi 30’, non ricordo cosa ho detto loro all’intervallo ma alla fine abbiamo parlato nello spogliatoio e invece di essere tristi abbiamo pensato che ci saremmo divertiti in Champions League con Real Madrid e Marsiglia. E così è stato”.
La vittoria in Champions con il Porto è la tua più grande impresa?
“Sono sempre accusato di essere poco umile, devo dare ragione a chi lo dice. Ho fatto tante imprese, ma vincere la Champions League con il Porto è una super impresa con nove giocatori portoghesi nell’undici che ha giocato la finale di Champions League, sette ragazzi un anno prima non avevano nessuna partita in Champions League. Ma ci sono altre imprese perché se ho avuto la fortuna di lavorare con squadre con grandi budget, ho avuto anche la difficoltà di lavorare in squadre dove vincere è un miracolo. Ho vinto con quel Manchester United, ho vinto una coppa e mezza con la Roma, non sono stato capace di vincere due coppe a Roma ma ne ho vinta una e mezza e ho altri sei-sette mesi qui, no? Quella con il Porto è un’impresa che mi ha aperto le porte del mondo”.
Il gol di Costinha al Manchester United?
“In quel gol nessuno ha fatto quello che avevo detto di fare. Avevo un ragazzo in panchina che era uno specialista sulle punizioni, aveva un grande talento ed era Ricardo Fernandes. A 15 minuti dalla fine noi stavamo dominando contro il Manchester United, guardavo di là e di là e vedevo solo gente spaventava, ho chiamato Ricardo e gli ho detto che la punizione, se ci fosse stata, l’avrebbe tirata lui. Arriva la punizione e Benny McCarthy tira la punizione al posto di Ricardo Fernandes, quando guarda Costinha alla seconda palla e non in barriera mi sono arrabbiato, ma abbiamo segnato. Lì si è aperta la porta per me e sono andato a esultare con i miei giocatori. Qualche giorno dopo c’erano Chelsea e Liverpool, potevo scegliere il mio futuro, dopo la Champions con il Porto avevo deciso che sarei andato in Inghilterra, che per me era un sogno”.
La vittoria del campionato con il Chelsea?
“È stata un’impresa perché in Inghilterra tutti hanno poteri economici. Al Chelsea quando sono arrivato c’erano già stati investimenti, Abrahamovic era lì da due anni ma mancava l’ultimo passo, c’era stato Ranieri prima di me. Non mancava tanto per vincere, c’era il potenziale per cambiare la cultura e per decidere quali calciatori avere e non è una cosa che accade spesso. Abbiamo costruito una squadra da sogno con due Premier League di fila, abbiamo vinto tre coppe e quando sono andato via la stessa squadra, con qualche investimento in più, ha continuato a fare la storia”.
Come entri nella testa dei giocatori per ottenere il massimo?
“Ricordo sempre il mio professore, loro non sono calciatori ma uomini che giocano a calcio. Sono tutti diversi, devi imparare tutto ciò che puoi su di loro, come parlare, come interagire e i feedback continui con loro. Ci sono cose che a livello umano devi riuscire ad andare più lontano. Non c’è un segreto per arrivare lì, devi essere te stesso ed essere empatico con la gente che lavora con me. Essere empatico significa essere critico, esigente, aperto, essere onesto. Il giocatore, parlando in generale, quando lavora con me capisce che sono onesto e dentro l’onestà esiste tutto questo, così il rapporto diventa ottimo e tu ottieni il massimo da ogni giocatore. Penso che non sia un segreto”.
La vittoria a “Stamford Bridge” con l’Inter?
“Quando con l’Inter ho battuto il Chelsea, posso dire che quando avevamo vinto in casa, il Chelsea segna con Kalou e festeggia tanto. Dopo la partita mi viene a chiedere scusa per aver festeggiato tanto, ho detto a Salomon che non doveva scusarsi, è lavoro. Quando siamo andati a Londra, qualche giorno prima abbiamo perso a Catania, credo contro il Catania di Sinisa Mihajlovic e avevamo fatto una partita orribile ma ci ha aiutato per preparare la sfida contro il Chelsea. I ragazzi dell’Inter erano maturi, era gente brava, psicologicamente forte, era gente preparata per il conflitto. Il conflitto è stato un modo importante e facile per me di motivare l’armata. Quando stavamo per giocare contro il Chelsea, ho detto loro che in tre anni e mezzo al Chelsea non avevo mai perso in quello che era il mio stadio, non avevo mai perso”.
La vittoria contro la Dynamo Kiev ai gironi?
“Mi sono fatto male nello spogliatoio, un dolore (ride, ndr). Se perdiamo siamo fuori, se pareggiamo siamo ancora vivi ma dobbiamo prendere un risultato a Barcellona. Ricordo che avevo detto che a fine partita non dovevamo piangere né stare con le mani in faccia, quello che stavamo facendo dal punto di vista del gioco e dal punto di vista emotivo non era niente, ho detto ai miei che saremmo tornati felici o morti di stanchezza, non morti di rimpianti e tutte queste storie qua. Abbiamo rischiato tutto, quando abbiamo segnato potevamo accontentarci del pareggio e giocarci tutto a Barcellona, ma l’inerzia era lì e quando c’è l’inerzia questa gioca una parte importantissima nel calcio. Qualche volta noi allenatori facciamo i fenomeni e diciamo di fare miracoli, ma alle volte le cose accadono perché fai in modo che accadono, hai giocatori bravi e di personalità, giocatori che potevi pressare ai limiti e loro ti rispondevano sempre. Se fossi rimasto altri 2-3 anni con quella squadra, avremmo vinto più di una Champions come dice sempre Materazzi”.