Torna a parlare Francesco Totti.L’ex capitano giallorosso ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano toccando diversi temi: dalla sfera privata al campo, fino alla Roma di Mourinho. Le sue parole:
(…)
Oggi vedi un numero dieci nel calcio mondiale?
«No, non esiste più. Si è estinto, quel ruolo. E infatti non trovo una squadra che mi entusiasmi. Ma ti ricordi il Real Madrid, il Barcellona, il Liverpool, l’Inter del triplete…».
Quali sono le doti che deve avere?
«Tecnica, ovviamente. Ma soprattutto la velocità di testa. Se tu capisci le cose prima degli altri, se vedi i movimenti dei compagni di squadra, se tocchi la palla una volta meno del necessario, tu hai già fatto il tuo, da numero dieci. Direi che questa è la caratteristica: vedere prima e fare prima. Io ero fortunato perché avevo Perrotta, Delvecchio, Di Francesco che sapevano e capivano come giocavo io e, a loro volta, sapevano dove avrei messo la palla. Lo sapevano prima, anche loro. Se uno ha talento, cioè anticipa il normale, tutta la squadra gira più veloce».
Chi era il più forte che hai incontrato?
«Per me, sentimentalmente, era Giannini. Mi piaceva perché era il capitano della Roma, era il mio idolo, giocava davanti alla difesa e sapeva guidare tutta la squadra. Volevo diven-tare come lui, da bambino. Tra quelli con cui ho giocato direi Zidane. Era completo, aveva tutto. Tutti forti, ma ognuno diverso. Prendi me e Del Piero. Uguali e opposti. Lui più veloce nel dribbling, calciava a giro. Io mettevo le pal-le di prima, senza pensarci, d’istinto. Ognuno aveva la sua dote che lo ha reso, anche nella memoria dei tifosi, unico. Unico perché irripetibile»
(…)
Con quali allenatori ti sei trovato meglio?
«Per primo Mazzone, che ricordo con grande affetto. Poi Zeman e il primo Spalletti. Lo devo dire. È la verità».
Spalletti. Ha dimostrato, di nuovo, di essere un grande allenatore. Vuoi dire qualcosa che chiuda la polemica tra voi?
«Se lo incontrassi lo saluterei con affetto, mi farebbe piacere. Credo che tra noi ci sia un profondo legame. Anche perché quello che abbiamo passato insieme, quando arrivò da Udine, è per me, nella mia vita, qualcosa di irripetibile. Sia in campo che nel quotidiano. Io uscivo una o due volte a settimana con lui a cena. Luciano era una persona piacevole, divertente, sincera. Nella fase finale il nostro rapporto è stato condizionato dall’esterno, specie dai dirigenti o consulenti della società, e non ci siamo più capiti. Anche io ho fatto degli errori, ci mancherebbe. Credo che tutti e due, se tornassimo indietro, non entreremmo più in conflitto»
(…)
Del calcio cosa ti manca?
«Tutto. Il ritiro, lo spogliatoio, la maglietta, la sala massaggi. Cavolate? No, erano la mia vita. Mi manca il bar e il caffè con i compagni di squadra, il viaggio in pullman da Trigoria allo stadio. Mi manca la routine che ha fatto la mia vita per decenni. Quando è finita le giornate si sono svuotate. Dopo mi sono sentito solo. Ma ci sta. Finiva una cosa che mi piaceva, che era la mia vita. Io però non pensavo che mi facesse così male smettere quella vita programmata, quella passione che nella mia mente avrei potuto continuare a vivere. Non ho accettato il di-stacco dal calcio».
E il modo in cui la Roma ti ha trattato?
«Io ho passato trent’anni nella Roma. Ho portato rispetto a tutti, rinunciato ad altri ingaggi senza farlo pesare. Ho detto no al Real e altri perché volevo quella maglia, solo quella maglia giallorossa che è stampata dentro di me. Il modo in cui è finita la mia storia con La Roma, sì, mi è dispiaciuto. La verità è che quando nel calcio non servi più non c’è più rispetto. Se Maldini, Del Piero, Baggio, io siamo fuori dal calcio significherà qualcosa, no?»
Mourinho ha detto che ti avrebbe voluto nella Roma. Ti piacerebbe?
«Certo che, con un ruolo definito, mi piacerebbe, per le ragioni che ho detto prima. E mi piacerebbe con Mourinho, è il numero uno, lo stimo molto. Mi dispiace non essere stato allenato da lui, nella mia carriera. Ma non voglio tornarci su. Non voglio chiedere. alla Roma sanno che se hanno bisogno di me, per cose serie, mi fa piacere dare una mano. Altrimenti, amici come prima»
(…)
Cosa è stata per te la maglietta giallorossa?
«Tutto. Passione, amore, paura, divertimento, emozione. Era il mio sogno da bambino. La mia vita è stata fortunata. Devo solo onorarla e ringraziarla. Ci ho messo del mio. Ma non sempre basta».
Se tu incontrassi te stesso bambino, c’è un errore che gli diresti di non fare?
«No, gli errori servono. Ti fanno crescere, ti aiutano a non farli più. Io mi rimprovero lo sputo a Poulsen che, nonostante le immagini televisive, per me non è successo. Non posso immaginare di avere sputato a una persona, è la cosa più assurda e più lontana dal mio modo di intendere il calcio e la vita».
(…)
Ti ricordi una gigantesca litigata nello spogliatoio?
«Una volta un litigio tra Panucci e Spalletti. Due tipi che prendono fuoco facilmente. Cominciano a discutere nel campo, poi appena finita la partita tutti a correre per evitare che si menino. Si sono affrontati nello spogliatoio e per separarli si è messo in mezzo Bruno Conti, che è piccolo piccolo. A Bruno, nel trambusto, è andata di traverso una crostatina che stava mangiando. Manca poco muore».
Cosa speri per il tuo futuro?
«Il mio sogno è di realizzare un altro sogno. Prima ne avevo uno, e sono riuscito a trasformarlo in realtà. Vorrei averne un altro, lo sto cercando. Ora vorrei solo vivere la vita con più serenità e tranquillità, dopo tutti i problemi che ci sono stati».
Fonte: Corsera