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DOPO PARTITA La lettura dell’incontro di Paolo Marcacci

Totti

In questa partita c’è stato davvero tutto e per come è girata speriamo che la stagione intera le assomigli. Per venti minuti gli occhi sarebbe stato meglio chiuderli; da lì in poi c’è stato da stropicciarseli, esattamente all’inverso di quanto è accaduto alla gradinata genoana: prima esplosiva, subito dopo entusiasta e alla fine fioca e rabbiosa di fischi, frustrata e frustata da un Osvaldo versione “C’ho fame!”, il cui colpo di frusta (così completiamo l’ameno gioco di parole) fa “capoccella “ al di sopra di un due a due che a un certo punto i bookmakers avranno bancato a mille contro uno, o giù di lì. L’incubo, che merita l’aggettivo “ricorrente” al seguito, si era palesato come uno dei peggiori in assoluto, con la difesa destinataria ultima della dissennata fase difensiva e il distinguo è più fondamentale che importante, per chi ne sa un minimo. Sgombriamo il campo da ogni possibile equivoco: non è una stilettata a Zeman, è l’analisi di quasi un terzo di partita contro una squadra ordinata e senza guizzi come sanno essere, anche nei limiti, quelle di De Canio, che profondono agonismo per sopperire ad altre mancanze che ben conoscono. Quello che accade all’inizio non è allora un qualcosa di imputabile ad un qualsivoglia allenatore, persino se si fosse chiamato Luis Enrique: è un approccio inesistente, una somatizzazione della paura fermentata in due settimane di sospetti, un non starci con la testa; a dar retta al tutti contro tutti che tanto piace a noi (ro)masochisti. Di bianco vestito, un angelo dal numero dieci, dalla faccia troppo consueta per spaventare chi viene destato, asciuga il sudore dalla fronte della Roma e deposita un fazzoletto tondeggiante, che la leggerezza è quella, oltre l’ultima fibra del dito medio di Frey, che capisce la trafittura forse dal momento in cui vede il Capitano di una ciurma fino a quel momento allo sbando incrociare il timone verso l’angolino che spezza il fiato rossoblù.  Da quel momento la Roma, ancor prima di pensare a guadagnare metri di campo, riconquista se stessa ed è il dato psicologicmanete più importante, perché nel riconoscersi ritrova cognizione e consapevolezza della propria forza, persino cominciando a blindare Stekelenburg col trascorrere dei minuti. L’intervallo se ne va sulla scia del pennnarello di Osvaldo e della sua dedica capovolta in caduta sforbiciante. Al rientro, l’immagine che riscalda e che forse fa sospettare l’indirizzo scelto dalla serata: Totti e Zeman rientrano uno accanto all’altro, parlottando con una sicura tranquillità, che profuma di sicurezza; nell’attraversare la linea mediana il boemo incrocia Osvaldo già pronto sul disco di centrocampo con la palla sotto la suola: due parole, meno di un “Tweet” di quelli che tanto piacciono a “Danistone”, come si chiama sul social network. Il labiale, impossibile da decifrare, ci piace allora supporlo: “Vai dentro ancora di più e chiudiamo ‘sta partita…” come il decollo di lì a poco certifica. Nel secondo tempo la Roma da’ anche l’impressione di divertirsi e il Genoa si scoraggia, segno che l’ago della personalità sceglie un Nord opposto a quello della gradinata di Marassi. Ci sarà tempo per stabilire quanto sia stata di Zeman la squadra di ieri sera e quanto dello spartito si sia visto nei vari frangenti di partita; personalmente sulla corsia di sinistra abbiamo individuato qualche automatismo in più ma al di là di chi ha sovrapposto meglio e di quale intermedio abbia seguito alla lettera la bibbia degli inserimenti, a noi interessava un sussulto di sicurezza e consapevolezza nei propri mezzi, non solo tecnici: è arrivata, assieme a tre punti che disegnano il sorriso sulla zucca giallorossa dell’imminente Halloween.

Paolo Marcacci 


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