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DOPO PARTITA La lettura dell’incontro di Paolo Marcacci

Zeman

Novanta minuti raccontati da un sospiro di sollievo: le partite possono essere rappresentate anche da un’istantanea del genere. E’ quello che accade quando dalla catena di sinistra, come usa dire da qualche tempo, la “biglia” di Totti trova la sovrapposizione inusuale di Tachtsidis che scarta il dolcetto residuo di Halloween, scherzetto per Ujkani che si protende invano in uscita, a beneficio di Lamela che arriva dall’altra portandosi appresso tutta la Tevere: stavolta il minuto settanta non è quello in cui cominciano a materializzarsi gli spettri ma quello del suggello, della tranquillità, pur se relativa: sono tre, il margine dovuto alla superiorità della Roma, alla sua concentrazione, al suo insistere con la messa in pratica dello spartito e di quei particolari dello stesso che ancora possono risultare indigesti. Il sospiro è quello di Zeman, subito, magari impercettibile come le sfumature di certe sue dichiarazioni, ma puntuale come l’ansia di chi aspetta da troppo tempo quello che gli è dovuto: non alludiamo al risultato, quanto al diritto sacrosanto di essere criticati, all’occorrenza, per le proprie idee soltanto quando le si è viste mettere in pratica, pur con tutte le sbavature che ancora si evidenziano in alcuni frangenti di partita. Non è un discorso di presenze né tantomeno di assenze, è un qualcosa che si spiega con un vocabolo: fame, quella che stasera abbiamo visto anche dopo il quattro a uno, per esempio con la punizione di Pjanic tesa e tagliata sul primo palo; come a dire che la Roma di stasera, che ha fatto apparire il Palermo una squadra molto meno organizzata rispetto a quanto non sia realmente da quando l’ha presa in mano Gasperini, ha avuto le idee di Zeman e le guance porpora di Florenzi, anche quando quest’ultimo si è accomodato in panca a dieci minuti dalla fine. Non è il caso di parlare di singoli quando la nota più lieta arriva dalla manovra e dalla concentrazione collettiva, però ci sia concessa qualche eccezione, a cominciare dall’autorevole ritorno di Burdisso, anche vicino al goal di testa peraltro, alle sue parole da leader e da garante del gruppo alla fine; a testimonianza che non poteva essere né il solo né l’irrisolvibile problema della retroguardia troppo perforata in questo inizio di stagione. Speriamo si sia compreso che una cosa è la difesa in sé, un’altra la fase difensiva, che quando non funziona ingigantisce le colpe di chi per ultimo è chiamato ad intervenire. Un’altra eccezione va fatta per Lamela, scegliendo il primo minuto di recupero del primo tempo: resiste alla sportellata, resta in piedi, tiene palla e fila via sull’out di destra, circa settanta metri di campo mangiati nel rispetto delle consegne ed esaltati da fondamentali adamantini, del cui pregio nemmeno lui si rende ancora conto del tutto. Ultima eccezione, nel citare un singolo, quella di Bradley: “Leva la cera, metti la cera…” come in quello strano esercizio che il vecchio orientale faceva compiere al ragazzino di Karate Kid: l’americano non sarà uno che suona il violino con i piedi, ma dategli un appuntamento all’interno dello schema e si farà trovare all’ora e al posto stabiliti. Che altro? Ah, si: Totti è il più grande di tutti, per la duecentodiciannovesima volta in campionato sempre sia lodato.

Paolo Marcacci 
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