(M.Cecchini) – Se fossimo ai tempi della Prima Repubblica, parleremmo di sfiducia costruttiva. Non a caso ieri Walter Sabatini ha parlato di «rimpasto di governo». Di sicuro la conferenza del d.s. della Roma ha rappresentato una sorta di nuova frontiera comunicazionale: la non conferma, il non esonero.
Zdenek Zeman è appeso ad un filo e, per continuare a lavorare in giallorosso, dovrà fare quantomeno una specie di abiura del suo modo di gestire lo spogliatoio. Al di là dell’esito finale della vicenda, una cosa colpisce parecchio: la differenza del comportamento dirigenziale rispetto ai risultati egualmente deludenti da parte di Luis Enrique. La storia è nota. Un anno fa, in presenza della prima vera contestazione all’allenatore spagnolo, il d.g. Baldini gli propose il rinnovo di contratto, adesso invece la «non sfiducia» sembra far sperare in (difficili) dimissioni.
Perché questa differenza? La risposta che giunge dal ventre di Trigoria è chiara: Luis Enrique era parte del gruppo e difendeva il gruppo (e la dirigenza lo ripagava con la stessa moneta), mentre Zeman ha la tendenza sempre a scaricare la responsabilità sugli errori degli altri. Come dire, il boemo è diventato così personaggio da sentirsi innanzitutto coinvolto nelle sorti dello Zeman Football Club e poi in quelle della squadra che lo stipendia. Compito obiettivamente più facile in una società di piccolo-medio cabotaggio piuttosto che in una di alto profilo. Tutto sommato, però, stupisce lo stupore. Parlando della scelta estiva, racconta Sabatini: «Vedendo le lacrime di Zeman nel giorno della promozione del Pescara, pensammoche fosse entrato nell’eta dell’emozione». Avevano sbagliato, perché il boemo è rimasto lo stesso: nel volto da sfinge, nelle parole di pietra, nei metodi di allenamento, nelle tattiche e nella gestione dello spogliatoio. […]