(E. Audisio) – Ci sono scelte giuste che diventano sbagliate. Zeman era una di queste: aveva una bella faccia, da film western, il resto era trasgressione pura: «Si vince e si perde, succede a tutti. Ma a me succede più che agli altri. Si può fare gol e si può subirlo, mi piace provarci, cercare un disegno, certe verticalizzazioni le ho prese dall’hockey. Bisogna insegnare qualcosa ai giocatori, migliorarli, non solo occuparsi del risultato». Lo sport ci casca spesso, si fa fregare dalla grande illusione, si riprende un grande nostromo, che ha pagato la sua diversità, anche se sono cambiati oceani ed equipaggi. Lo sport crede nella colla, nel riattaccare i pezzi della leggenda, nelle porte che continuano a sbattere, nella nostalgia del passato che ti porta sempre per mano, pure se non ce la fa più. Non è il solo, altrimenti Scott Fitzgerald non avrebbe mai scritto Il Grande Gatsby.
Lo disse pure (a settembre) Franco Baldini: «La vera utopia è vincere con Zeman ». Non era un rischio, ma una richiesta di miracolo. Roma e la Roma americana ci hanno provato: sembrava giusto così, riprendere il vecchio condottiero che aveva denunciato il doping nel calcio, l’allenatore dalle mille sigarette, ma poco fumoso, l’esiliato che finalmente tornava a casa, a giocarsela in serie A, il santone trasgressivo che aveva cresciuto Totti e che in panchina non esulta né si dimena. La sua è stata definita«l’entusiasta staticità di un’iguana». Non solo: ma zemaniano nel frattempo era diventato un aggettivo: significava essere zen, andare avanti per la propria strada, credere nella bellezza di un’azione non nella certezza di un risultato. Senza tirarsela, perché come dice Zeman: «Io sono normale, sono gli altri a essere anormali. Sono stato fuori per scelte altrui, non mie. Io non ho mai rovinato le società e non sono mai stato sotto inchiesta». Così la nuova Roma, dopo l’esperienza spagnola, tornava ad essere un po’ antica.
Fa niente se il mare era cambiato e le onde del destino pure, se l’allenamento con i gradoni non lo fa più nessuno, se il calcio a suo modo corre, Zeman era il grande maestro che tornava ad insegnare in un’università importante. Anche Roma era contenta, poteva risognare, e i suoi circoli trovare un’identità amata: la squadra avrebbe fatto divertire, quel po’ di lucida follia che ti fa venire voglia di vivere (pure se alla fine muori). Suscitavano ammirazione non solo le sue pause, ma anche le sue lezioni sincere: «I giocatori oggi sono troppo immersi nell’elettronica e in internet. Io non posso proibire Facebook, ma posso provare a dire che stare da soli davanti a un video non va bene.
Non può contare più l’ingaggio che il collettivo. I ragazzi non sono cattivi, ma molto individualisti, non guardano attorno e nemmeno all’altro». Ecco forse nessuno si è più guardato attorno. E l’illusione è diventato compiacimento: il passato non riusciva a produrre né presente né futuro, i giocatori hanno sentito (perché le antenne le hanno) che il santone insisteva in un suo mantra, troppo fratturato, e i dirigenti non essendo capace di uccidere Cesare hanno prima parlato di situazione cancerogena e poi hanno armato di pugnali la squadra. Si sa: i vecchi maestri sono cocciuti e i giovani studenti arroganti. Il sogno è svanito nel peccato:sarebbe stato bello ritrovarsi, perché lo sport di questa materia è fatta, ma non è capitato. Risalire insieme non sempre si può, ma provarci è inevitabile. Lo sa anche Zeman: «Si chiama gioco perché non sai come va a finire, se lo sai prima vuol dire che non lo è».