(M. Sconcerti) – A metà degli anni Sessanta cominciò una fase nuova del calcio italiano, crebbe quasi improvvisamente la qualità dei cosidetti «attaccanti atipici». Non è un caso che Totti nella classifica dei marcatori sia tra Piola e Nordahl, due centravanti classici, forti, alti, molto fisici. Quello era lo standard per un grande centravanti. Accanto a questo tipo di attaccante, c’era sempre stato o l’ala o la seconda punta, qualcuno di molto più agile e tecnico, meno determinante. Improvvisamente in Italia accadde qualcosa che non era mai accaduto nel mondo se non in Brasile: cominciarono a nascere grandi fantasisti, fuoriclasse del passaggio e del dribbling, giocatori che già da soli avrebbero segnato un’epoca e che in Italia si trovavano spesso a fare uno la riserva dell’altro. Fu un miracolo tecnico che abbiamo perso quasi senza capirlo.
Eppure gli inglesi, i tedeschi, gli argentini, gli spagnoli, non hanno mai avuto Rivera, Mazzola, Bulgarelli, Corso, De Sisti nella stessa generazione. E tantomeno hanno avuto i nostri numeri dieci di vent’anni dopo, Baggio, Del Piero, Zola, Totti, Mancini, Pirlo. Quelli degli anni Sessanta erano tutti ragazzi nati durante la guerra, cominciarono a giocare su prati martellati dalle bombe e furono spinti poi dal piacere di correre con un pallone dovunque volessero. Eravamo pieni di spazi e di oratori. E un’intera nazione ricominciava con loro. A suo modo Gianni Rivera inventò lo spazio. Fu il primo a dare il passaggio non dove il giocatore era, ma dove sarebbe dovuto andare. Non avevamo mai avuto un giocatore così avanti nel tempo, così raffinato. Infatti non fu sempre capito, nemmeno dai compagni. Mazzola non l’ha mai pensata esattamente così sulla gerarchia tra lui e Rivera. Una volta mi disse «perché tanta confusione per una mia riserva? ». E tecnicamente aveva ragione. Ma il calcio italiano è una straordinaria parentesi aperta da Rivera e chiusa adesso da Totti. Sta finendo un’epoca,
Totti è l’evoluzione naturale di Rivera. Dopo di lui comincerà qualcosa di nuovo e di diverso. Ma questo mondo, il loro mondo, si chiuderà definitivamente. Perché proprio in Italia tanti numeri dieci, tanti fantasisti? Perché siamo la tradizione che fa da ponte tra il Sudamerica e il Nord Europa. I brasiliani hanno le spiagge per imparare i dribbling e il dosaggio nei tocchi, noi abbiamo sempre avuto le strade, gli spazi stretti dei cortili, gli oratori. Oggi che per giocare a calcio anche un bambino deve pagare, oggi che tutti hanno spazi ma li devono dividere con chi ha pagato la retta come loro, oggi cioè che vince il socialismo della piccola ricchezza e non la gerarchia della qualità, non troviamo più un grande fantasista.
Infatti Totti e Del Piero stanno scomparendo senza eredi. Prima tutti, ora vent’anni senza nessuno. Una domanda classica e quasi impossibile è chi sia stato il migliore. Si possono dare tutte risposte diverse e riuscire anche a motivarle. Io penso però che il migliore debba essere considerato Rivera perché è stato il primo, perché ha aperto una strada, un calcio improvvisato e geometrico, assolutamente essenziale. Anche in questo Rivera e Totti si toccano. Rivera era avanti di trent’anni nella sua leggerezza, nelle intuizioni. Totti sembra un lottatore antico che lavora con l’esattezza dell’artigiano. Sono uno l’epoca che manca all’altro. C’è una cosa in più a loro favore: sono stati giocatori completi, attaccanti ma non solo. Trequartisti ma non solo. Hanno sempre dato alla squadra quello che si aspettava, non hanno mai seriamente deluso. Giocatori pieni, totali. È l’angolo più difficile per i fantasisti, questa costanza operaia, questo spirito di corpo. Baggio è stato il talento più grande, ma a 19 anni aveva già entrambe i ginocchi disfatti. Questo lo ha portato a soffrire dopo ogni partita e a recuperi lenti, allenamenti ridotti. È come avesse sempre giocato con un peso addosso.
Non è un caso abbia dato il meglio di sé in tornei brevi come i Mondiali, non lungo le stagioni del campionato. Spesso gli allenatori prendevano per pigrizia la sua fatica a essere normale. Questo lo ha portato a dover cambiare molte squadre. Un paradosso per la sua qualità. Baggio è stato comunque «solo» un attaccante, forse al livello di Maradona, un Messi appena meno veloce, ma non ha avuto la completezza di gioco di Rivera e Totti. Del Piero tra questi è stato come Sandro Mazzola accanto a Rivera e Corso. Grande talento, più struttura atletica, la magrezza dell’attaccante che diventa senso del gol.
Del Piero è ingiudicabile perché, come Mazzola, di un’altra categoria. Ha fatto la bandiera senza creare attriti. La differenza di un giocatore cresce soprattutto quando si sente il rischio di perderlo. Del Piero è stato sempre quieto, sempre un modello. Forse anche troppo perfetto. Rivera ha lottato per prendersi fisicamente il Milan ed è scomparso dal Milan perché avversario politico del presidente. Totti ha sempre avvertito la Roma della propria romanità. Del Piero ha sempre ubbidito, per educazione e forse anche strategia. Ha giocato il ruolo del bravo e del buono pensando a una storia lunga una vita. Ma nel breve lascia qualcosa ai concorrenti.
Restano da catalogare Mancini e Zola. Uno, Zola, è stato un effetto speciale, una storia diversa, ma non ha vinto niente. Mancini è stato l’unico numero dieci ad aver vinto campionati con squadre che non avevano mai vinto, Sampdoria e Lazio. Eriksson mi disse una volta che Mancini era molto più giocatore di Baggio. Ma come facevo a credergli? Eriksson una volta voleva cedere Baggio per prendere Gerolin…