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IL ROMANISTA L’uomo dei sogni, i nostri

Franco Sensi

(M. Izzi) – Ray Kinsella, in un film interpretato da Kevin Kostner nel 1989, era “l’ Uomo dei sogni”, un agricoltore dell’Iowa che vede apparire nel suo campo di granoturco, i giocatori della storica formazione dei Chicago White Sox del 1919. Il film a dire il vero non mi piacque un granché, ma mi ricordai del titolo di quella pellicola qualche anno più tardi, in uno dei momenti più drammatici della storia della Roma. Era il 12 maggio 1993, quando Il Corriere della Sera pubblicò un articolo in cui preannunciava il fallimento dell’AS Roma: «(…) la Covisoc, che è la Corte dei conti del pallone, ha formulato la proposta di messa in liquidazione di questa Roma per “gravi irregolarità di bilancio”, applicando (tardivamente) l’articolo 13 dello statuto federale (…). La commissione di vigilanza parla di “meccanismo perverso” da troncare, segnalando l’ obbligo di reperire presto almeno 40 miliardi per evitare l’ epilogo fallimentare entro il 30 luglio, comunque un… attimo prima dei calendari relativi ai campionati 1993/94».

In quel corsivo terrificante, a firma Franco Melli, c’era, però un esile spiraglio di luce a cui aggrapparsi: «esiste in queste ore disperate l’eventualità di annodare un triumvirato Sensi, Mezzaroma, Malagò, già improbabili componenti d’ una cordata dei sogni». Da lì a pochi giorni, l’operazione andò in porto, la Roma venne salvata e dopo pochi mesi Franco Sensi divenne veramente: “l’Uomo dei sogni”. Il suo primo acquisto in “solitaria”, fu quello di Massimiliano Cappioli. “Il Cappio” appena arrivato ricordò il suo passato nelle giovanili della Lupa, quando era un raccattapalle della grande squadra di Liedholm: «Una volta – disse –dopo un gol, abbracciai Pruzzo e non lo volevo più lasciare. Un dirigente mi dovette portare via per un orecchio». Sensi soffriva quei ricordi, non voleva “ricordare” la grande Roma, voleva ricostruirla.

Che non sarebbe stato facile, però, il presidente lo capì da subito. Ad aprile del 1994, la Juventus gli scippò l’ingaggio di Paulo Sosa, lui cercò di spiegare a se stesso e ai tifosi cosa fosse accaduto: «Mi era stato detto: è un giocatore dal rendimento sicuro, anche se non è un fuoriclasse. Così avevo dato disposizione a Moggi di portare avanti la trattativa e di chiuderla. Lui si era rivolto all’avvocato Canovi, che è suo amico, per prendere la procura del giocatore e quando ho parlato con tutti e due mi à stato detto di stare tranquillo. Dopo la vittoria con il Cagliari, due sabati fa, ho dato incarico a Moggi di partire per il Portogallo e di firmare il passaggio di Paulo Sousa alla Roma. Invece ho saputo che la Juventus, a sorpresa, era arrivata prima. (…). Resto sbalordito dinanzi a tanta negligenza».

A dicembre del 1996, divenne Consigliere Federale, fu un riconoscimento che gli diede grande soddisfazione, forse perché aveva letto quell’investitura come un segnale di trasparenza e rinnovamento: «Non ci sono dentro la storia giallorossa – fece notare in quell’occasione –miei predecessori che abbiamo ottenuto la stessa carica. Anzi, ad essere sinceri, giusto Renato Sacerdoti provò l’ebbrezza per tre ore. Difatti, mentre stava dirigendosi verso la prima riunione del governo di via Allegri d’allora, lo rinchiusero dentro l’ascensore. E quando lo liberarono ebbe l’amara sorpresa di ritrovarsi tagliato fuori». Nonostante questo, sapeva che “il palazzo”, “il potere”, non lo aveva mai amato. Franco Sensi si fermava a ricordare quando Villa Pacelli era frequentata da Bernardini, Fasanelli e Ferraris IV (“Adorava il poker” diceva ridendo Franco), ma era tutt’altro che reticente quando gli si chiedeva di spiegare perché la sua famiglia fosse uscita dalla Roma nel luglio del 1962: «Beh, cominciarono a prevalere strategie politiche, gli amici degli amici “andreottiani”, le manovre che anteponevano favori personali alla scelta d’una presidenza mirata. Certo, sarei arrivato dopo Dettina, se qualcuno m’avesse tirato la volata. Oppure parecchio più tardi, quando Flora Viola, pressata dalla Federcalcio, tentò invano d’evitare soluzioni democristiane».

Per ironia della sorte, proprio Giulio Andreotti, nel gennaio del 2001, lo propose come sindaco di Roma: «Perché – dichiarò Andreotti – alla guida della Roma e delle sue aziende ha mostrato capacità indiscutibili e perché una figura esterna ai due poli sarebbe un beneficio per l’intera città». A Visso, dove Sensi era stato Sindaco per 10 anni, ricordavano la sua abitudine di versare interamente lo stipendio da primo cittadino nella casse comunali, un candidato perfetto e popolare, dunque. Sensi, però, rispose: “No grazie”, era sul punto di arrivare a coronare il suo sogno, quello di realizzare una Roma vincente. Eppure, proprio quando era vicinissimo al massimo trionfo, in quel 2001, Franco Sensi dimostrava di “leggere” i fatti della vita come pochi:

«Il calcio – spiegava – dietro lo scintillìo che fa sognare milioni di persone, è un mondo di banditi in grisaglia e cravatta. Estorsori, truffatori, ricattatori professionisti (…). I nomi li sapete. Sono i personaggi che dovrebbero uscire di scena una volta per tutte, se si vuole che il calcio finalmente cambi». Aveva una grande voglia di vincerlo quello scudetto perché: «Io capisco cosa pensa la gente. Lo capisco come nessun altro, visto che in vita mia di regali ne ho fatti mille volte di più di quanti ne abbia ricevuti. Anche nel calcio, anzi “soprattutto”’ nel calcio, nessuno ha mai regalato niente a me né a questi tifosi». All’alba di quel 17 giugno c’era anche la paura di non farcela e allora, al suo intervistatore, Stefano Petrucci, Franco Sensi, prima di congedarsi, lasciò il segno straordinario del suo modo di vedere le cose, di essere “romano”, nell’incarnazione più alta: «Certo – disse – comunque vada a finire, almeno quest’ anno un po’ di gente l’abbiamo fatta divertire, no?». Sì, Presidente, ci ha fatto divertire e piangere di gioia.

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