E’ bene precisare sin da subito che questo non è un pezzo contro De Rossi; del resto non vuole essere neppure uno scritto a favore del centrocampista giallorosso. Lui casomai è un pretesto, l’ultimo in ordine cronologico, per trattare di un altro soggetto, se così possiamo definirlo: il tifoso. Quello che una volta aveva una chiara, nitida rappresentazione in carne e ossa, seppure spesso un poco macchiettistica e che oggi, invece, è un’entità talmente astratta da risultare indefinibile. O indefinita?
Di fatto, il tifoso 2.0 è una creatura mitologica, metà uomo e metà card, parlante per via telefonica presso le radio che sceglie ma rappresentativo quasi per nulla, quando conta. Non indice conferenze, non può scegliere il momento in cui esternare malumori, non ha cronisti al seguito pronti a raccogliere l’esca, non ha vie alternative ai propri malumori.
Rimane male quando un giocatore che ama non sembra più lui, resta ancor peggio quando apprende che quel giocatore è ormai lontano, se non altro con la testa.
Non deve sindacare su quanti allenamenti della sua squadra vanno in fumo durante una stagione, nessuno lo sente quando urla per pretendere dedizione al club e rispetto al “lavoro” da parte dei suoi beniamini.
Deve solo dare, in tutte le forme che può, senza poi potersi permettere di urlare disappunto e delusione.
Meriterebbe anche lui i titoli in neretto quando ha rabbia e malumore da comunicare, lui che i milioni di Euro li legge solo sui giornali.Invece, messo alle strette dalle delusioni, soprattutto quelle che non vengono dal campo, non gli resta che la via dell’allontanamento.
Dovrebbero baciargli i piedi, al tifoso, pure quando esagera. Invece se ne ricordano solo quando, oltre a pagare, pretende di dire la sua.
E allora se ne lamentano, fino a quando il tifoso non ne avrà abbastanza.
Paolo Marcacci