(R. Condio) – Vanno bene le frontiere aperte e la globalizzazione: è il nuovo mondo e indietro non si torna. Però, ammettiamolo, fa uno strano effetto vedere il nostro passatempo nazionale preferito invaso dagli stranieri. Ci sentiamo da sempre dei fenomeni, nel calcio: quattro volte campioni del mondo e un campionato che ci ostiniamo a etichettare come il più bello. II problema è che comincia a essere complicato considerare la Serie A roba esclusivamente nostra. Figlia dei tempi, è una Babele. Nella quale chi gioca in casa è diventato minoranza. Il sorpasso degli stranieri sugli italiani è realtà da due stagioni e ha scatenato la reazione dell’Associazione Calciatori ma anche dei responsabili delle Nazionali azzurre, che hanno sempre meno materiale umano selezionabile. Tutto vano. Perché l’ondata esterofila continua a ingrossarsi. A maggio la Serie A 2012/13 aveva chiuso con un record storico: 54,21% di stranieri in campo (315 su 581).
Alla faccia di ogni allarme, tra sabato e lunedì la nuova stagione è partita ritoccando subito il primato: 156 di 35 nazioni diverse su 278 per un 56,11% che in corso d’opera rischia di crescere ulteriormente. E stata una batosta, la prima giornata, per chi s’era illuso che il «made in Italy» potesse tornare padrone del «suo» campionato. Oltre a Inter e Catania, i club con il più forte accento forestiero da anni, anche il Napoli è partito con 10 titolari stranieri su ll. E la Fiorentina filo-ispanica ha addirittura chiuso il match contro gli etnei con una squadra composta interamente da atleti nati oltreconfine. Ma hanno aumentato le loro quote estere anche tradizionali roccaforti autarchiche come l’Atalanta (7), la Juventus del dopo-Calciopoli (7) e la Sacopdoria (devil). Resiste solo il Parma: 11 italiani sui 14 scesi in campo, compreso Amauri che per il calcio non è più brasiliano avendo vestito la maglia della nostra Nazionale. II fenomeno, non più con-trastabile con misure protezionistiche che sarebbero peraltro pure anacronistiche, pare inarrestabile: negli ultimi sei anni il numero di stranieri utilizzati in A è più che raddoppiato, passando da 157 a 315.
E il boom è fragoroso già dalla prima giornata: furono 113 nell’apertura del 2010, per salire ai 136 del 2011 e ai 142 del 2012, fino ai 156 attuali. Ci stadi tutto un po’ per spiegare la tendenza. Dal fascino del nome esotico da dare in pasto al tifoso, alla convenienza di operare su mercati meno costosi, fino alla ormai radicata e inspiegabile scarsa fiducia nei giovani nostrani, che però sempre più spesso trovano spazio nelle altre leghe europee. Ed è questa la grande contraddizione del nostro campionato. I ventenni italiani marciscono quasi sempre in panchina o in tribuna, a meno che non siano fenomeni come Balotelli o El Shaarawy; i ventenni con cognomi che finiscono in «ez» o «ic» trovano spazio al volo. Evidentemente, i «bamboccio-ni» sono solo i nostri. E difficile crederlo, ma per i dirigenti del pallone è così.
E le squadre che costruiscono ogni estate, per poi spesso ribaltare a gennaio, riflettono questa convinzione. Gli italiani, che erano il cuore della Serie A, poco alla volta ne stanno diventando il contorno. In minoranza quasi in ogni spogliatoio, a volte stranieri in casa propria. C’è tutto il mondo, adesso, che gioca in Italia: nello scorso campionato sono stati 50 i Paesi rappresentati, con le maadcolonie dei 58 argentini e dei 41 brasiliani. Calciatori, ma non solo. Ora tornano anche gli allenatori. Benitez, Garcia, Lopez e Petkovic: 4 panchine straniere non le vedevamo da 16 anni. Alla prima giornata hanno vinto tutti. Normale, in un Serie A sempre meno italiana.