(M. Izzi) – La questione è questa: sono convinto che, salvando la buonafede di tutti (e ci mancherebbe altro), la Roma, anche in questa ultima, dolorosa, vicenda della chiusura della Curva, finisca sempre per scontare l’onere di rappresentare la città della sede della FIGC. E’ la squadra cioè, che deve rappresentare sempre un punto di riferimento esemplare, anche per l’applicazione dei regolamenti.
E fin qui, soprattutto se c’è da dare un contributo alla sacrosanta lotta contro la discriminazione razziale (soprattutto a pochi giorni dalla ricorrenza del leggendario discorso “I have a dream” di Martin Luther King, celebrato anche dal presidente Obama), tutto bene. Se questo può veramente servire a cancellare questa piaga, ben venga il provvedimento. Il problema è che, in quella che sembra una legge di Orwell rovesciata, la Roma, sembra essere sempre più uguale degli altri.
Ricorriamo a un esempio, lontano nel tempo, che forse potrà allontanarci dalle polemiche dell’attualità e aprire qualche spunto di riflessione interessante. Si sente spesso ricordare l’invasione al termine di Roma–Inter del 17 dicembre 1972. I nerazzurri, lo scriviamo a vantaggio dei più giovani, si presentarono all’Olimpico in testa alla classifica con la Roma che seguiva a due punti. All’89’ l’arbitro Michelotti concesse un calcio di rigore che decretò la vittoria degli ospiti. A questo punto si scatenarono degli incidenti, con un tentativo d’invasione, che furono sanzionati dagli organi competenti con due giornate di squalifica dello Stadio Olimpico.
La Roma dovette cioè ospitare il Palermo e il Verona (guarda un po’) sui campi neutri di Bari e Arezzo. Non intendo entrare sulla validità a meno della decisione di Michelotti (potete tranquillamente farvi la vostra idea andando a vedere il filmato su Youtube), quello che è certo è che le decisioni di un arbitro, anche se sbagliate, devono essere accettate, altrimenti lo sport finisce. Il problema, se mai, è quello che accadde dopo. Il palazzo della sede della FIGC subì tre giorni di contestazione durissima. Forse, a livello inconscio, proprio in seguito a questo, qualcosa si ruppe nella capacità di valutazione della classe arbitrale nei confronti della Roma.
I tifosi giallorossi seguirono la squadra a Bari in 8000 e, prese le misure, si presentarono ad Arezzo in 15.000. Qui, l’arbitro Porcelli si rese protagonista di una prestazione più che mediocre. Concesse un calcio di rigore al Verona per fallo di Peccenini su Luppi a cinque minuti dalla fine del primo tempo. Uno spettatore isolato reagì tentando l’invasione. Come scrisse La Stampa fu: «un momento drammatico. Per un attimo si è temuto di dover assistere a un’altra invasione di campo con conseguenze disastrose per la società romanista».
Il Presidente Anzalone è costretto a entrare in campo per calmare la folla. Legge poi un invito alla calma, irradiato dagli altoparlanti dello stadio durante l’intervallo. Nella ripresa Porcelli concederà un calcio di rigore alla Roma salvo poi, dopo aver consultato il suo guardalinee, tornare sulla sua decisione e revocare il penalty. A fine gara Anzalone, con la sua automobile, scortò l’arbitro sino al casello di Firenze per accertarsi che la sua incolumità fosse salvaguardata. La Roma, però si era ormai fatta la fama della Società cattiva. Era proprio così?