(M. De Luca) – Esplora il significato del termine: Per Napoli e Roma erano le prime serie verifiche. Vincere nel S. Siro milanista e portarsi a casa un derby significa ricevere i primi timbri di legittimazione al livello più alto. Altri esami verranno, ma questi erano già belli tosti. Specie per il Napoli che s’è trovato a fronteggiare il miglior Milan di questa fase, domato con due periodi di superiorità all’inizio di entrambi i tempi ma subìto per lunghi tratti (e con molti rischi, compreso il primo rigore sbagliato nella carriera professionistica di Balotelli). Era, come si sa, dai tempi di Maradona (anno del Signore 1986), che il Napoli non batteva il Milan in casa sua e anche se gli eredi di Gullit e Van Basten sono lontani dalla loro grandezza, il ritorno all’impresa ha molto significato. Benitez ha fatto pure un mini turnover e, in campo, s’è ritrovato un Hamsik pallido (e infatti sostituito) oltre a un Insigne mai efficace come col Borussia: eppure il Napoli ha vinto. Come dire che, grazie soprattutto alla continuità di Higuain e alla sicurezza di Reina, la squadra sa vincere partite importanti anche quando qualche tenore stecca. E questo è il primo segno di autentica maturazione, ché a vincere quando tutto gira bene son buoni tutti.
Un buon Milan, s’è detto: migliore di quello che ha battuto il Celtic e che ha rimediato fortunosamente un pari col Torino. Ma il Milan può essere tutto, tranne che uno splendido perdente. Balotelli, che lo trascina, può riportarlo in alto, se ben assistito: ma intanto è andato a guadagnarsi un cartellino rosso a partita finita per protestare inutilmente. Quando crescerà, senza più mortificare lo straordinario talento ricevuto in dono ? C’erano ancora molti assenti e, stavolta, anche un rigore negato. Sta migliorando, il Milan. Ma intanto c’è chi corre molto di più. Forse già troppo. E anche la nuova-vecchia Inter che coglie in casa del Sassuolo la più rotonda vittoria in trasferta della sua storia, dà un’idea di rinnovata competitività. O almeno di affidabilità.
Per Conte, insomma, molti nemici (e molto lavoro). La laboriosa vittoria sul Verona (che aveva già guastato la festa d’inizio campionato al Milan) offre due conferme: la prima, che, pur con qualche nuovo interprete, la squadra continua a esprimere sul campo il furore predicato dal suo allenatore, a smentire la presunta sindrome da pancia piena; la seconda, che, almeno in questa fase, sembra aver bisogno di una scossa per sprigionare il meglio: a Copenaghen, con l’Inter e ora anche col Verona è servito l’elettrochoc di un gol di svantaggio per dare davvero inizio alle musiche. Qui, magari, c’è da migliorare un po’ ma, intanto, Tevez si è letteralmente preso la squadra per l’autorevolezza e l’efficacia con cui si muove ; e lui, Pogba e Vidal riescono a surrogare le qualità di Pirlo (pur nelle rispettive diversità, ovviamente) quando, come ha fatto Mandorlini, gli viene costruita attorno una vera e propria gabbia di marcatura. Il gol di testa di Llorente, finalmente buttato nella mischia, indica l’ ulteriore alternativa nella manovra d’attacco (quella che è mancata negli ultimi due anni): con un buon cross e un buon colpitore, si riesce con semplicità a sfondare i muri che resistono agli aggiramenti palla a terra o agli inserimenti in zona-gol dei centrocampisti. Era chiaro da tempo.
Quanto alla Roma e al suo inatteso primato di fine estate, la mutazione rispetto al recente passato è stata radicale, quasi genetica. Da squadra scapestrata che deliziava la sua gente un attimo prima di sprofondarla nella disperazione per l’incostanza di rendimento (anche all’interno di una stessa partita) a squadra solida, razionale, che subisce il minimo (1 gol in 360′) e segna tanto: 10 gol, tutti nel secondo tempo. Segno di tenuta atletica, di convinzione, di capacità di credere in se stessa. La Lazio era il primo esame duro, dopo un trittico morbido (Livorno-Verona-Parma). La verità si conoscerà più avanti, ma di certo Garcia ha fatto cambiar registro a tutto l’ambiente. E non pareva possibile in così poco tempo. Per Napoli e Roma erano le prime serie verifiche. Vincere nel S. Siro milanista e portarsi a casa un derby significa ricevere i primi timbri di legittimazione al livello più alto. Altri esami verranno, ma questi erano già belli tosti. Specie per il Napoli che s’è trovato a fronteggiare il miglior Milan di questa fase, domato con due periodi di superiorità all’inizio di entrambi i tempi ma subìto per lunghi tratti (e con molti rischi, compreso il primo rigore sbagliato nella carriera professionistica di Balotelli). Era, come si sa, dai tempi di Maradona (anno del Signore 1986), che il Napoli non batteva il Milan in casa sua e anche se gli eredi di Gullit e Van Basten sono lontani dalla loro grandezza, il ritorno all’impresa ha molto significato. Benitez ha fatto pure un mini turnover e, in campo, s’è ritrovato un Hamsik pallido (e infatti sostituito) oltre a un Insigne mai efficace come col Borussia: eppure il Napoli ha vinto. Come dire che, grazie soprattutto alla continuità di Higuain e alla sicurezza di Reina, la squadra sa vincere partite importanti anche quando qualche tenore stecca. E questo è il primo segno di autentica maturazione, ché a vincere quando tutto gira bene son buoni tutti.