(A. Costa) – «Io parlo due o tre volte all’anno. È sempre pericoloso quando un presidente parla troppo. Sono l’allenatore e i giocatori che hanno un ruolo pubblico».Nicola Cortese, quarantacinquenne di Catanzaro Lido, carriera rampante nel mondo bancario in Svizzera, ha scelto di avventurarsi nel labirinto del calcio mantenendo il basso profilo. Da quattro anni è ai vertici del Southampton, il club della Premier League inglese in cui si è rifugiato Pablo Daniel Osvaldo dopo i veleni romani e romanisti, ma la sua figura conserva comunque qualcosa di misterioso. In pochi sono a conoscenza del fatto che questo italiano con mentalità elvetica («Qui ormai mi considerano inglese») riunisca in sé le cariche di «presidente, direttore generale e direttore sportivo, mi sento una sorta di Galliani d’Oltremanica».
Nel 2009 il Southampton annaspava in terza divisione ed era sull’orlo del fallimento: in qualità di consulente della famiglia di Markus Liebherr, industriale svizzero, Cortese lo rilevò per 12 milioni di sterline (meno del costo di Osvaldo) ricevendo carta bianca nella gestione e nella pianificazione delle strategie di sviluppo del club «la cui immagine era distrutta». Oggi il Southampton è una società che sprizza salute. Nessuno osa mettere in discussione la leadership del manager di origini calabresi e la proprietà si limita a passare all’incasso degli utili, l’equivalente di due milioni e mezzo di euro nei primi 6 mesi di quest’anno. «In effetti — confessa Cortese con una punta di compiacimento — mi sento il proprietario morale del club». Il progetto originario prevedeva il ritorno alla dignità del grande calcio in 5 anni («Quando l’ho illustrato mi hanno riso dietro»). In realtà dopo 3 stagioni il Southampton era già in Premier League e oggi la sua macchina organizzativa è un punto di riferimento per il calcio continentale.«Ho dovuto ricostruire la società dalle fondamenta. Nel 2009 gli impiegati erano 90, ora sfiorano i 250. E l’Accademia era morta: l’abbiamo rilanciata mettendo l’educazione dei nostri ragazzi al centro del progetto. Quest’anno in una partita abbiamo schierato tre diciottenni del vivaio nell’undici iniziale: in Premier League non era mai accaduto».
E nei primi mesi del prossimo anno anche il centro sportivo del club sarà pronto: «Determinante è stata una visita che ho fatto a Milanello dieci anni fa. Il college rossonero è diventato un po’ il mio riferimento, ho avuto la sensazione di essere in una famiglia, quel luogo aveva fascino». Per realizzare il suo miracolo il presidente made in Italy ha puntato sul cosiddetto «Southampton way», il modo di essere, lo stile di chi lavora per il Southampton: «Qui le gerarchie esistono solo sulla carta, non voglio che mi chiamino presidente. La nostra squadra non è composta soltanto da 11 giocatori, dopo quattro anni abbiamo tanti talenti, non solo in campo. Siamo diventati una famiglia. Southampton way significa puntare sempre sulla qualità e riuscire ad essere i migliori in tutto quello che facciamo. Non vogliamo imitare gli altri, vogliamo che siano gli altri a imitarci».
Tifoso della Roma («Però quando sono stato a Trigoria a trattare Osvaldo mica l’ho detto»), Cortese vive di calcio ma non va pazzo per il calcio («Amo il mio lavoro e non mi piacciono le partite: quando la mia squadra gioca in trasferta me ne sto a casa»), del quale possiede una concezione rigorosamente manageriale («Non lavoro in un club ma in un’azienda che produce calcio»). Ovvio che ai suoi occhi le nostre miserie appaiano amplificate («Mi mette tristezza vedere com’è ridotto il calcio italiano: credo gli manchino rispetto, idee e umiltà») ma un giorno qualcuno potrebbe chiamarlo, moderno Padre Pio, a guarire la serie A: «Ho sangue italiano e faccio le vacanze a Forte dei Marmi. Però non so cosa mi riserverà il futuro».