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IL ROMANISTA I dieci comandamenti

La Roma contro l’Udinese

(T. Cagnucci) – Quando Morgan De Sanctis ha alzato la palla al cielo, e sembrava Coelho l’arbitro brasiliano che fischiò la finale Mondiale a Madrid nell’82, la Roma ha battuto non soltanto il Chievo, ma tutti. Ieri la Roma ha battuto tutti, buoni e cattivi (dov’è la fine?), belli e soprattutto brutti, perché ieri non c’avevamo contro solo quelli del Chievo, ma venticinquemilioni di gufi e di tutte le specie, non solo quelle più note come i laziali, ma juventini, interisti, milanisti, fiorentini, napoletani, veronesi, arlecchini, ufo, parlamentari, impiegati, banchieri; contro ciavevamo le nostre paure, quelle ragionevoli e quelle da combattere, le paure soprattutto di diventare grandi così e di fare quel passo in più che fa la differenza fra andare o sparire, fra fare e recriminare; contro ciavevamo anche la grandezza dei nostri sogni sempre troppo belli che in passato si sono trasformati in incubi o in bolle di sapone, in niente, e poi contro ciavevamo un’altra cosa: la storia. Perché se la Juventus di Sivori e Platini, il Milan di Rivera e van Basten, il Napoli di Maradona, l’Inter di Mazzola e Matthaeus, se nessuna squadra mai in Italia era riuscita a vincere dieci partite di fila dall’inizio del campionato significava giocare contro tutti questi simboli e fantasmi, almanacchi e sillogismi, statistiche e ricordi. Contro ciavevamo pure le streghe de’ sta festa senza senso (più che altro che festa è se sta a gioca’ la Roma?) ma contro ciavevamo pure la benedizione del Papa al Chievo: ieri Garcia ha potuto più di Bergoglio e il Pontefice che è tifoso perdonerà e condividerà i nostri dieci comandamenti.

Amen ai Gufi, Amen e Dieci e rode a tutti, Amen e Trenta sul campo,Amen sulla storia e così sia. Abbiamo battuto tutti apposta è stato così faticoso. Il Chievo valeva il Brasile dell’82 (ciaveva apposta gli stessi colori) ieri giocavamo mica solo contro tutti ma anche contro le nostre ansie, i nostri limiti, persino contro i nostri sogni e le nostre speranze. Ieri è stata la partita della Vita ma non come la intendono tutti, anzi tutto il contrario della partita da una botta e via, da grande gesto da poesia, ieri era la partita della Vita quella che giochi quanto ti alzi e devi andare a lavorare, quando ti annoi o quando sei stanco e devi continuare, quando sei innamorato e per un attimo sembra finito l’amore, più o meno era tutto questo che un romanista si sentiva addosso dopo il turno infrasettimanale, il + 2 così piccolo dopo la bellissima-bellissima prova del 9: era la partita della quotidianità apposta abbiamo vinto uno a zero.

Non solo perché 1 e 0 fa 10, e senza il 10 contro l’Empoli vincemmo all’epoca 1-0 per l’altra 10ecima da record ai tempi di Spalletti, ma per dare il senso del prezioso, del lavorato, del sudato, del guadagnato, del giusto, del dovuto, del sognato. Un gol per farci contenti, cos’altro serve a volte nella vita? A volte basta un gesto, una parola, una lettera, un bacio, un sorriso, un colpo di testa. Quando la Roma ha segnato ieri è successo tutto questo e tutto il peso di tutto questo è sparito via. Guardate l’esultanza dei giocatori quando Borriello colpisce al volo, sembrano farfalle che aprono le ali e volano nella storia. E’ quella che adesso abbiamo alzato in faccia a qualcuno che la faccia da tempo l’ha persa (ma co’ loro ormai giocamo a tennis: stamo 30-15…). Quando Morgan De Sanctis ha alzato la palla al cielo sembrava Coelho, quello del Guerriero della Luce: è in quel momento che sono caduti i gufi. Lassù ci siamo rimasti solo noi.

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