(S.Carli) La conta è fissata per oggi, lunedì: nella sede milanese della Lega Calcio, la Confindustria della Serie A del pallone. Non è una riunione ufficiale, non si chiuderà con un voto ma servirà per vedere quanti tra manager e presidenti delle 20 squadre del nostro massimo campionato si presenteranno e quanti no. La posta in gioco è il pasticcio dei diritti tv, che stavolta non è solo una transazione commerciale ma è anche il palcoscenico dove si starebbeapparentemente consumando unai nedita divergenza dentro la Real casa di Ancore tra Adriano Galliani, ad del Milan, e le esigenze di Mediaset.
L’ appuntamento di oggi è uno snodo cruciale per capire se il tentativo di Infront Media di congelare lo status quo attuale fino al 2021, avrà avuto successo oppure no. La Infront Italia fa capo a Marco Bogarelli, manager con un passato vicino al mondo Fininvest e un presente in Infront Sports & Media,di cui è uno dei 5 membri del board e tale è rimasto anche dopo che la holding svizzera è stata acquisita nel 2011 dal fondo di private equity britannico Bridgepoint che già controlla la Doma, l’organizzatrice e detentrice dei diritti tv di MotoGp e Superbike. In Italia però Infront è un advisor particolare. Non si limita a preparare i pacchetti da offrire alle pay tv e a scrivere un bando di gara (attività che nel resto d’Europa comporta quclahe mese di lavoro un compenso da studio legale, di qualche milione al massimo) ma si è ritagliato un ruolo che accompagna tutta la durata del contratto e per cui riceve un compenso proporzionale agli introiti prodotti per la Lega e che in questi anni di contratto è oscillato tra i 30 e i 40 milioni l’anno. Prende cioè da sola più di una squadra minore della Serie A. In più si fa pagare da 18 squadre su 20 l’organizzazione delle riprese tv negli stadi (solo Juve e Napoli fanno da sole) e da 13 squadre su 20 la commercializzazione di altri diritti legati al marchio.
Tutto questo per dire che il contratto Infront ha un costo che pesa, specie in questi tempi di vacche magre. Adesso alcune squadre (i 7 club “ribelli” sono state definite: ossia Juve, Fiorentina, Roma, Inter, Sampdoria, Verona e Sassuolo) hanno puntato il dito contro la poca trasparenza sulla vendita dei diritti esteri, da cui la Serie A ha incassato una media di 110 milioni l’anno mentre alcune testimonianze indirette (di documenti in Lega non se ne sono visti) parlerebbero di una vendita per un valore complessivo sopra i 200 milioni. Quello che non convince le “ribelli” è un calcolo semplice: va bene che quello italiano non è più il campionato più bello del mondo e che è stato superato, oltre che dagli inglesi, anche dalla Liga spagnola e dalla Bundesliga tedesca, ma questa differenza non può essere di 8 a 1, visto che i 110 milioni italiani vanno confrontati con i circa 900 che la Premier League incassa dalle tv estere, dopo aver incamerato 1,3 miliardi dalla vendita dei diritti in casa, a BSkyB e a Bt.
Nel 2008 la Lega Calcio preferì l’offerta di Infront Italia a quella di concorrenti di peso. Due big della consulenza come Kpmg e Price Waterhouse & Cooper, e un gruppo specializzato in diritti sportivi come l’americana Img. Infront venne preferita perché si era impegnata a garantire un minimo contrattuale annuo di 900 milioni per i diritti italiani, cosa che le altre società non ritennero di poter fare. Di fatto la scorsa estate si è scoperto che la garanzia presentata da Infront Italia altro non era che una lettera di patronage della sua capogruppo. Secondo la Infront un documento valido e bancabile: per ottenere anticipi, per esempio, visto che i club ottengono il controvalore dei diritti diluiti nel corso dell’anno mentre hanno bisogno di risorse a inizio campionato per le campagne acquisti. E di fatto nessuno ha mai messo alla prova il valore della garanzia di Infront perché quando alcuni club hanno effettivamente chiesto anticipi alle banche, hanno portato non il contratto con Infront ma quello con la Lega, che nessuno istituto si è sognato di mettere in dubbio. Ma il vero capolavoro Infront l’ha messo in carniere quando è riuscita a ottenere dalla Lega, due anni fa, di farsi prolungare il contratto fino a tutto il 2016. Ciò vuol dire che non solo la prossima assegnazione triennale, che si terrà l’anno prossimo, ma anche il primo campionato dei tre che si terranno tra 2015 e il 2018 non potranno non essere di sua spettanza. Infront, non contenta, chiede di prolungare la sua esclusiva fino al 2021. Le pay tv vogliono muoversi su contratti pluriennali e quindi non si può certo spacchettare il triennio. Quindi, fino al 2018 Infront è sostanzialmente a posto perché la Lega si è praticamente legata le mani da sola.
Ma allora, da cosa nasce il fermento di queste settimane? Dal timore dei sette club “ribelli” che la situazione resti bloccata per ben otto anni e che le cose non possano andare bene come fino ad oggi. Finora la tv ha pagato al calcio italiano un miliardo di euro l’anno. Cifra che ne fa uno dei campionati più cari che ci sia in circolazione. Andrea Zappia, ad di Sky Italia, lo dice a chiare lettere da tempo: la Serie A vale da sola ben oltre la metà di tutti i diritti sportivi nel bilancio del suo gruppo, Formula 1 compresa. E ha già fatto sapere che l’attuale divisione di prezzo tra la pay tv satellitare e quella “terrestre” di Mediaset non può più continuare oltre il campionato 2014-2015, quando scadrà l’attuale contratto. Sky paga infatti 570 milioni di euro l’anno per tutte e 380 le partite di Serie A. Mediaset ne paga quest’anno 270, meno della metà. Una differenza che ha due giustificazioni: le partite sono una cinquantina in meno (ma i big match e i derby ci sono tutti) e il contratto risale a prima dello switch off del digitale terrestre, quando la copertura era ridotta.
Condizioni dunque non più replicabili. Gli interessi di Sky e Mediaset, tanto per cambiare, divergono anche qui. Zappia ha più volte dichiarato che non è disposto a pagare la stessa cifra in queste condizioni, ma ha fatto capire che potrebbe invece anche alzare la posta a patto di avere delle esclusive: un modello simile a quello inglese in cui non solo non si vendono tutte le partite di campionato, ma si creano pacchetti diversi. E ha fatto balenare ai club, affamati di soldi, che la attuale divisione per piattaforme separate, terrestre e satellite, non mette in competizione tra di loro i due unici offerenti (Sky e Mediaset, appunto). Una competizione che darebbe vantaggi sia al vincitore, che sarebbe l’unico ad offrire una determinata partita, sia alle squadre che massimizzerebbero gli introiti. Mediaset invece punta a mantenere le cose così come stanno. E si trova in singolare sintonia con Infront che ha chiesto il secondo prolungamento di contratto sempre su questa stessa base. Ma se il meccanismo dovesse restare così com’è, le uniche due voci che potrebbero aumentare sostanzialmente sono solo i diritti esteri e quelli sul digitale terrestre.
La Lega e il suo presidente Maurizio Beretta sono in difficoltà. Alle prime proteste di Sky ha minacciato di non vendere più i diritti ma di gestirli in proprio creando una pay tv tutta sua: d’altra parte le riprese le fa già la stessa lnfront. Ma le riprese sono il meno: si tratta di scegliere un sistema di codifica, una piattaforma in grado di gestire il segnale verso reti diverse (satellite, terrestre, Internet, cellulari etavolette), serve un sistema di billing e di gestione abbonati. E tante spese di marketing. Insomma, si può fare ma non è detto che sia redditiva. Se non altro, non certo nei primi anni. E infatti l’ipotesi sarebbe già tramontata. Tra dirigenti e manager dei club lo si dà per certo, come pure che le stesso Galliani avrebbe frenato. Certo, per Mediaset poteva essere una buona soluzione: avrebbe potuto inserirla nel suo pacchetto pay Premium e sostenere così il numero degli abbonati. Con meno margini ma anche con meno costi, guadagnando così tempo in attesa di capire cosa fare dei suoi canali pay. Sarebbe anche stato un modo per uscire dalla competizione diretta con Sky a testa alta, senza dover affrontare lo scontro diretto in un’astaa due per i diritti. Ma evidentemente il prezzo di una soluzione del genere finirebbe pergravare sulla Lega stessa e quindi sulle squadre. E questo calcolo evidentemente gira.
Al momento i sette “ribelli” sembrano compatti. Sono una minoranza, ma una minoranza “qualificata” (ci sono dentro Roma e Inter, i due club a proprietà straniera, più sensibile ai conti e meno alla politica, si suppone) e non aggirabile, visto che le altre 13 squadre non hanno i numeri per far passare delle decisioni (la maggioranza è di 14). Senza contare che Napoli, Chievo, Udinese, forse perfino il Torino di Urbano Cairo, fresco patron di La7, potrebbero ingrossare le fila della protesta.