- (Il Messaggero) – «Magari la prossima volta cerca di tirare più piano… che almeno provo a pararla…». Se ci fosse l’audio, molti riconoscerebbero in questa perfetta imitazione il borbottio in accento friulano del mito Dino Zoff. A fargli il verso è Francesco Morini, il toscano biondo della Juve degli anni Settanta, 11 campionati in bianconero, 256 partite e ben cinque scudetti (nella storia del calcio italiano solo una decina di campionissimi hanno conquistato più tricolori di lui). Undici volte indossò la maglia azzurra. (…) «Il centravanti me lo divoravo, io. Puntavo su anticipo, velocità e grinta. Il mio motto era: munizioni non arrivano, cannone non spara. Se stavo bene fisicamente, era dura farmi gol. Chiedetelo pure a Riva, l’ho fatto nero quando ci siamo affrontati: in 17 partite, neppure un gol mi ha fatto. Ma una volta, per infortunio, saltai la partita con il Cagliari: Riva segnò e Boniperti mi rinfacciò l’assenza tanto da negarmi, a fine stagione, l’aumento di stipendio che avrei meritato».
La rabbia per quell’autogol contro la Roma, il 16 marzo del 1975, gli è passata?
«Ora ci rido su. Ero solo, sul dischetto del rigore, spalle alla porta. Cross lento, facile da intercettare, ma un maledetto raggio di sole romano mi abbagliò e io riuscii a centrare il sette in rovesciata. Una botta paurosa alle spalle di Zoff». I giallorossi vinsero 1-0, ma fu una delle poche volte – solo quattro – nelle 21 sfide Juve-Roma con lui presente. Un’impresa per quella che era ancora la Rometta, una squadra che stava provando a crescere e che solo qualche anno più tardi diventò la grande rivale dei bianconeri, fino a vincere lo scudetto nell’83. Quell’altra invece era la Juve di Boniperti, piena di grandi campioni, di una difesa di “mostri sacri” come Scirea, Cuccureddu, Spinosi, Gentile, e appunto Zoff. Quella fu la Juve che con il giovanissimo Trap in panchina vinse lo scudetto del ‘77 a ritmo record, 51 punti, primato imbattuto per i tornei a 16 squadre».
Il suo non fu l’unico regalo alla Roma, vero?
«Feci il bis due anni dopo, proprio nella nostra stagione da primato, ma almeno il mio autogol non fu decisivo, perdevamo già 2-0. Certo, ogni volta che venivo a Roma, memori di quei regali, i tifosi giallorossi mi accoglievano all’aeroporto con entusiasmo: dai France’, pensace tu. E Trapattoni si grattava…»
Lei era una bandiera, come lo erano molti giocatori di quella Juve. Ora le bandiere non sventolano più.
«Proprio la Juve e la Roma resistono e sul loro pennone ancora sventolano Del Piero e Totti. I tifosi fanno bene a coccolarseli, anche se la loro carriera ha ormai cominciato la parabola discendente: Alex e Francesco possono regalare ancora grandi soddisfazioni ed essere da stimolo per i compagni più giovani. Comunque è finita un’epoca, il calcio non ha più il fascino dei miei tempi: ora i giocatori vanno e vengono come se niente fosse. Una volta si ricordavano a memoria le formazioni, perché giocavano quasi sempre gli stessi undici».
Invece oggi c’è chi, come Luis Enrique, cambia sempre. Barcellona-dipendente?
«Il tecnico della Roma sta cercando di far nascere qualcosa di nuovo per l’Italia, sta studiando. Invece Guardiola cambia perché ha tanti campioni e si può permettere il turn-over. Compito difficile quello di Luis Enrique: per realizzare il suo progetto ci vuole intuito e fortuna. Ma ora è arrivato il momento della verità: più un allenatore è bravo più deve essere veloce a far quadrare il cerchio».
Magari una vittoria stasera sulla Juve…
«Beh, faccio gli auguri alla Roma, ma spero che cominci a vincere dalla prossima partita».
Come, la cacciarono da dirigente, e ancora tifa Juve?
«Stavo facendo bene da direttore sportivo, ma arrivarono Giraudo e Moggi e fecero piazza pulita. Lì terminò per sempre la mia carriera in bianconero. Ma il cuore…».
Della Roma dei suoi tempi chi ricorda con più piacere?
«Capello, giocatore d’oro. Ha quel ghigno ma non è burbero. Già allora era allenatore in campo. Quando arrivò alla Juve premeva per far giocare Spinosi al posto mio, ma io non mollavo».
Osvaldo non trova pace nella Roma. Alla Juve, con tanti campioni, capitava di litigare?
«Una volta tra Salvadore e Marchetti volarono pugni e zoccolate. Oddio, Salvadore, pace all’anima sua, fece perdere la pazienza anche a me durante la finale della Coppa Intercontinentale a Roma, anno ‘73. Mi chiamava ogni secondo, “attento qui, marca quello, occhio di là” e alla fine esplosi e gli rifilai una gomitata nello stomaco e lui mi inseguì fino a centrocampo. Poi intervennero i compagni e la questione si chiuse lì. Ricordo anche una furiosa litigata in allenamento tra Boninsegna e Benetti, nella loro prima stagione bianconera. Abitavano nello stesso palazzo, Bonimba aveva un cane che abbaiava in continuazione e mordeva la gente. Un giorno lo trovarono morto. Benetti era fortemente sospettato di avergli eliminato il cane, anche se ha sempre smentito…».
Quindi litigare è normale, anche nelle squadre che vincono?
«Ho visto giocatori “anziani” dare schiaffoni negli spogliatoi ai più giovani davanti ad allenatori consenzienti. I giovani vanno educati, lo schiaffo di Osvaldo a Lamela ci può stare, gli doveva passare la palla, ma se oggi negli spogliatoi succedesse quello che accadeva ai miei tempi, interverrebbe Telefono Azzurro. I litigi fanno bene alla squadra, se sono costruttivi, se aiutano a crescere. Non devono essere controproducenti per il gioco e guastare l’ambiente. Nella mia Juve si litigava spesso, c’era rivalità, non sapete che legnate ci davamo, con Trapattoni costretto a sospendere gli allenamenti. Ma poi eravamo più uniti e vincenti di prima».
Spesso Totti è rimasto in panchina: scelta azzardata quella di Luis Enrique?
«Anche se sta fuori Francesco deve collaborare, spero che il suo atteggiamento sia positivo per il bene della squadra. Una bella coppia, lui e la moglie: Ilary è carina e simpatica, la conosco bene, mio figlio è uno delle “Iene”».
A proposito scandali, un tapiro d’oro lo avrebbe meritato Bergamo quando annullò il famoso gol scudetto a Turone.
«Io ero scappato appena in tempo per evitare le polemiche… Avevo chiuso la carriera in bianconero pochi mesi prima, ed ero andato a giocare in Canada. Non lo vidi, quel gol…».
Ma la famosa sudditanza degli arbitri nei confronti della Juve e delle grandi, l’avrà pure assaporata?
«Assolutamente no, credetemi. In campo, almeno, non ce ne accorgevamo, le vittorie dovevamo sudarcele. E molto spesso eravamo noi a essere incavolati con gli arbitri. Quando arrivò Mauro alla Juve, si presentò con un libro di Mao, faceva il sinistroide, ci ripeteva “voi capitalisti della Juve”, ci faceva due palle… Poi, dopo qualche mese che era con noi, cominciò lui a lamentarsi degli arbitri».