(M.Pinci) Molti non se lo ricorderanno nemmeno. Era gennaio 2012, la sua Roma chiudeva il girone di andata a 4 lunghezze dalla Lazio quarta ma con una gara da recuperare, virtualmente a meno uno. Era la Roma del tiqui taca, quella ambiziosa al punto da ispirarsi alla filosofia del Barça ben prima che Guardiola la imponesse al Bayern. Il suo profeta era un ragazzo spagnolo di quarant’anni, mascella pronunciata, noto soprattutto perché 18 anni prima l’avevamo visto una maschera di sangue urlare “hijo de puta” a Tassotti che aveva provato a sfigurarlo con una gomitata. Si chiamava Luis Enrique Martinez Garcia, per tutti solo Luis Enrique. Due estati fa lasciò Roma disperato, invecchiato precocemente, sull’orlo di una crisi di nervi. Due anni dopo sembra decisamente ringiovanito. Sarà che dopo un anno di purgatorio al Celta per purificarsi dall’inferno capitolino, è arrivato in paradiso: a lui il Barça ha affidato la propria rinascita dopo la peggiore delle ultime 6 stagioni. Il club più vincente degli ultimi 10 anni in Europa riparte da Lui(s). Che, a Roma, era una macchietta.
DA GURU A ZICHICHI, DAL TIQUI TACA A LUIGI ENRICO – Inevitabili le lacrime di coccodrillo per Luis, in città e a Trigoria: eppure, anche quei giocatori che all’epoca lo difendevano, non esitavano a riderne chiamandolo Zichichi, lo scienziato, qualcosa di simile a quel “filosofo” con cui Ibra sprezzava il grande Pep. Luis Enrique era arrivato, suo malgrado, con l’etichetta del guru che avrebbe imposto la rivoluzione culturale alla becera capitale: citava Paulo Coelho, chiedeva “trabajo y sudor”, la crisi di rigetto fu quasi immediata. Era un “talebano”, un integralista, perché non rinunciava ai terzini alti come ali. Ma quando vinceva due partite per 1-0 diventava Luigi Enrico, l’allenatore italiano di provincia, il catenacciaro. Allenava con gli occhiali da sole? Sembrava un “surfista”, un bagnino. Mentre il tiqui taca di ispirazione catalana era diventato in fretta il “chiticaca”, e non servono traduzioni. Era apprezzato per la svolta democratica data allo spogliatoio, ma se puniva un totem come De Rossi per un ritardo di qualche minuto alla riunione tecnica – o qualunque altra cosa fosse successa a Bergamo – diventava un dittatore inflessibile. Qualche tifoso gli chiese di dimettersi addirittura a dicembre. Scelte sbagliate ne fece – la casa a 60 km da Trigoria, l’acquisto di Bojan e José Angel, il “laziale” De la Pena come collaboratore, scappato prima del via al campionato – ma mostrò idee e metodi che avevano portato De Rossi a definirlo “l’allenatore più bravo che abbia mai avuto”.
DALL’ADDIO AL DERBY CON GARCIA? – Le stesse che devono aver convinto il Barça a credere in lui, che con i giovani della Masìa aveva segnato record su record. Roma invece non l’aveva amato, lui non aveva fatto molto per farsi amare. Pochi giorni prima che partisse, al bar dell’Olgiata lo videro addirittura ingurgitare una birra gelata mentre guardava la finale di Champions League: chi gliela servì giura fosse la prima volta, gli sembrò quasi un cedimento di quell’atleta austero, simpatico, un po’ solitario. Pochi giorni dopo quella serata passata – come tante altre – con il suo mental coach Tonino Llorente, lasciò Roma giurando di non tornarci più. O almeno non a lavorare. Nella prossima stagione però potrebbe tornare, come avversario in Champions League: Luis Enrique contro Garcia, un trionfo per la Roma americana. E per Franco Baldini, il direttore osannato, poi rinnegato che avendo scelto quel grugno asturiano per la sua prima Roma doveva essere necessariamente diventato un brocco. O un incompetente, a seconda di quanto fosse affilata la mannaia della critica: in quanti oggi gli avranno chiesto scusa?
Fonte: repubblica.it