(M. Izzi) Dite la verità, sabato dopo aver assistito alla finale il dopopartita non lo avete retto. Sacrosanto, ma a Lisbona sedeva sulla panchina l’eroe calcistico dei miei anni più belli, Carlo Ancelotti. A ripagare l’attesa – non so bene di cosa, ma sapevo che qualche emozione Carletto me l’avrebbe regalata – ci ha pensato una telecamera soggettiva che Mediaset ha piazzato sul tecnico del Real Madrid. Quando ormai nel palinsesto stava per farsi largo la finale del 2015, ecco arrivare le sequenze della soggettiva con la reazione del“Bimbo” al triplice fischio e alla quinta Coppa dei Campioni della sua ormai inimitabile carriera.
Faccia rivolta a un suo assistente, Carlo ha inarcato le braccia e le gambe a liberare una tensione e una gioia immensa ed è tornato a essere per un attimo l’icona esatta, splendida ed eterna di Roma–Avellino. E’ mancato l’abbraccio con Agostino, ma a me è sembrato di rivederlo e ancora una volta ho avuto la conferma che con Carlo Ancelotti un pezzettino di Roma vince sempre. Da due anni sto scrivendo un libro su di lui, sono sulle sue tracce, passando per la casa natale, le scuole che ha frequentato, gli amici che ovunque ha lasciato. Carlo Ancelotti è quello che Erich Maria Remarque è stato in letteratura: «The last romantic».L’ultimo dei romantici, l’ultimo o quasi (anche il nostro Garcia è fatto di questa pasta) di una specie di uomini e di allenatori che credono che per vincere siano indispensabili i rapporti umani. Avevate mai visto una squadra campione d’Europa piombare nella sala stampa di una finale vinta per unirsi a un coro di trionfo con il proprio allenatore? Con Carlo Ancelotti è accaduto.
Sandro Ciotti una volta mi raccontò del suo primo incontro con Ancelotti. Un’intervista per l’Intrepido, quattro chiacchiere senza troppe pretese. Bastarono per fargli capire chi aveva di fronte. Un ragazzo con le solide radici della gente di campagna, un ragazzo che parlava di completare gli studi da perito elettronico e farsi apprezzare da Liedholm. Quando il discorso andò sulla Roma, però, Carletto a bruciapelo, non parlò di schemi, ruoli, zona o ragnatela. Disse a Sandro Ciotti che gli sarebbe piaciuto fare bene in giallorosso perché «i tifosi ci vogliono bene e non voglio deluderli». Parlava così il Bimbo, nel 1979 e sembrava un miracolo allora, figuratevi oggi. C’è poi, nell’Ancelotti allenatore, un tocco di magia che non so spiegare, qualcosa a metà tra un intuito molto pronunciato e una sorta d’istinto primordiale.
Nei mondiali del 1994 a ventiquattro ore dalla partita con la Nigeria mentre come ha scritto Gene Gnocchi, Arrigo Sacchi “vestito come Lawrence d’Arabia” dichiarava: «Siamo a pezzi, è difficile» Carlo uscendo dagli spogliatoi della Pingry School, disse ai giornalisti che lo guardavano con commiserazione: «Domani vinciamo con un gol di testa da calcio di punizione». Sarebbe rimasto un vincente anche se ieri gli ultimi due minuti fossero andati via senza il gol del pareggio, ma tutti davanti al televisore sapevamo che non sarebbe stato così. Tanti anni fa, non vale la pena neanche di dire quanti, lo accogliemmo con uno striscione, lo ricordate? “La lontananza accresce l’amore”. Claudio Icardi a fine gara fece appena in tempo da dietro una grata a chiederli se lo avesse visto. Si girò, e gli disse: «Credo sia vero»… Grande Carlo, siamo felici per te… ma per l’anno prossimo ti facciamo e ci facciamo l’augurio che sia tu a fare il tifo per una Roma in finale di Champions!