(E. Currò) Non ci sono più gli oriundi di una volta, dice Josè Joao Altafini e stavolta non è una battuta delle sue telecronache. I brasiliani lo chiamavano Mazola con una zeta sola, quando vinse il Mondiale del ‘58: somigliava a Valentino Mazzola, eroe di Superga e papà di Sandro. Però poi nel ‘62 in Cile, quando la maglia verdeoro era diventata azzurra, lo chiamarono in un altro modo. «Traditore. Ai miei tempi era così. Ora è tutto diverso. Diego Costa con la Spagna l’hanno fischiato appena. Secondo me Motta può stare tranquillo». Più che tranquillo sembra convinto. «Io mi sento un italiano nato in Brasile. E ne sono felice». Così parlò Thiago, il brasiliano con la maglia dell’Italia al Mondiale, 52 anni dopo Altafini e Angelo Benedicto Sormani, gli ultimi della più grande città italiana del mondo ad essere scesi in campo per la Nazionale. La città italiana più grande del mondo è San Paolo ed è anche un po’ per questo che il numero 5 di Prandelli — il 5 in Sudamerica è il “volante”, il regista davanti alla difesa, ma in italiano la parola evoca il ruolo di chi non ti fa mai finire fuori strada — al ritorno nella patria abbandonata a 15 anni si è beccato tanti fischi. È successo a Volta Redonda, nell’amichevole col Fluminense, club per definizione avversario dei paulisti: un fallo su Conca e i tifosi del Flu non gli hanno perdonato più niente. Il passaporto non c’entra. Il resto si vedrà a partire da domani, quando debutterà al posto di Verratti. «Se succederà, sarà per dare un po’ di riposo a Marco, che ha giocato tanto e ha avuto la febbre. Io sono pronto, tutti siamo pronti». Magari lui un po’ di più. «Quello che sto provando lo capirò tra qualche tempo. Ora sono troppo concentrato sul campo. Ma è così importante sapere che cosa sento? ». Per noi lo è, Thiago, perdonaci. «Ok. Sono andato via dal Brasile molto presto. Ho vissuto molto in Spagna. Mi sono abituato al modo di vivere e di giocare europeo. A un certo punto è girata la voce che mi volesse la Seleçao. Ma non ho mai smaniato per quella maglia, non l’ho mai sentita dentro. Quando mi ha cercato l’Italia, grazie alle origini della mia famiglia, ho soppesato le cose e ho sentito che l’offerta era per me un privilegio. Quest’esperienza mi ha fatto crescere anche come uomo».
Ecco Thiago, dunque. Oggi nessuno si sognerebbe di fargli cambiare il nome, come accadeva per autarchica ipocrisia ai tempi del regime. Allora sarebbe stato Giacomo, come l’Inter era Ambrosiana, il bar mescita, il rugby giuoco della palla ovale. In principio fu Amphiloquio Marques detto Filò, figlio del presidente della Portuguesa di San Paolo. Non riuscì a giocare il primo Mondiale, nel 1930, perché Seleçao significava selezione tra fluminensi e paulisti: vinsero i primi. Ma lui aveva madre italiana e spirito d’avventura. L’immancabile piroscafo lo depositò oltreoceano e da lì parte la storia: maglia della Lazio e poi della Nazionale di Pozzo, nome italianizzato in Anfilogino Guarisi, coppa del mondo littoria del 1934 in Roma. Ci riprovarono nel 1962 i suddetti Altafini da Piracicaba, San Paolo, e Sormani da Jaù, San Paolo pure, assieme agli angeli dalla faccia sporca, gli argentini Sivori e Maschio sprovvisti di Angelillo. Fu un fiasco e basta oriundi. La categoria risorse con l’argentino campione del mondo Camoranesi, che nel 2006 non cantava l’inno di Mameli però crossava bene e ora è qui, telecronista della catena americana Univision, fiero delle 55 maglie azzurre. Nuovi italiani, li ha definiti Prandelli, e Motta si tiene stretto l’eufemismo. È nato a Sao Bernardo de Campo (San Paolo, ovviamente) nell’agosto dell’82, cioè in piena celebrazione del brasilicidio di Paolo Rossi, e l’Italia l’ha sempre respirata: nel bairro di Mooca dove a ogni angolo c’è una pizzaria e nel Clube Atletico Juventus, basta la parola. Poi lo chiamò il Barcellona, correva l’anno 1999. Il padre Carlos Roberto scovò i documenti della storia avita a Polesella, provincia di Rovigo, Polesine. Da lì il bracciante agricolo Fortunato Fogagnolo era emigrato a fine Ottocento, epoca di crisi e di fuga nelle Americhe. Era il bisnonno di Thiago. A Barcellona il ragazzo prometteva benissimo e infatti il Brasile lo pescò per la Gold Cup del 2003, anticamera Under 23 per la Seleçao. Il destino gliel’hanno cambiato le ginocchia fragili, togliendogli la Catalogna e gli amici fraterni Messi e Ronaldinho. Dopo parentesi all’Atletico Madrid, il Genoa lo restaurò nel 2008: un allenamento in più al giorno e tanto lavoro psicologico contro le legittime paure. Al 15’ di Genoa-Siena s’infortuna Milanetto. Lui entra, non esce più e prende la rincorsa per il Triplete con l’Inter di Mourinho. Racconta Gasperini: «Ha il dono dei campioni: prevede l’azione. Ed è un uomo spogliatoio». In più, si è sempre sentito europeo, ergo italiano. Lo sapeva Lippi, che nel 2009 lo mise in preallarme. Se n’è ricordato Prandelli nel 2011, mentre il ct della Seleçao Menezes dormicchiava. L’ha chiamato, arruolato e portato all’Europeo. Ora Thiago è qui. E anche se l’Inter l’ha lasciato partire per Parigi, non gli dispiacerebbe prima o poi tornare in patria. «L’Italia, perché no».