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IL MESSAGGERO Fenucci: “Ripartire dalle scuole”

Fenucci
Fenucci

(M. Caputi) Claudio Fenucci, romano, ad della Roma, parla del calcio che verrà.

È il momento di cambiare, il calcio italiano deve cogliere questa opportunità dopo il tracollo della Nazionale?

«La crisi era presente già da diversi anni. Non è una competizione come il Mondiale a certificarla».

Quindi?

«Va ripensato il progetto sportivo. Noi dirigenti abbiamo una grande responsabilità poiché gestiamo un patrimonio rappresentato dai sentimenti dei tifosi. La Nazionale in questo è un veicolo importante. Le difficoltà sono evidenziate dai numeri, basta pensare ai fatturati delle società, alle condizioni degli stadi, all’inadeguatezza del processo di formazione dei giovani e alla difficoltà nel reperire risorse economiche».

A proposito di formazione: facciamo fatica a produrre talenti.

«Dobbiamo fare investimenti sull’attività di base. Abbiamo circa 650 mila tesserati nell’attività giovanile che giocano a pallone molto meno di 20 anni fa. Si è perso il calcio destrutturato, quello che si faceva per strada e negli oratori».

Cosa si potrebbe fare allora?

«La Federazione e le Leghe, d’accordo con il Coni, dovrebbero pensare a investimenti nelle scuole per riattivare l’attività di base».

E i settori giovanili?

«Dobbiamo chiederci se le risorse siano sufficienti o adatte. Spesso le strutture, i sistemi di allenamento e gli allenatori non sono all’altezza. Sui tecnici delle giovanili le società devono fare uno sforzo, dare maggiore dignità a quel ruolo migliorando il percorso economico e professionale».

Per strutture cosa intende?
«In Inghilterra hanno investito più di 3 miliardi di euro negli stadi e più di 200 milioni in strutture e centri anche per il settore giovanile. Questo vuol dire un migliore ambiente professionale: campi, spogliatoi, palestre e attrezzature moderne».

Da dove si comincia?

«È un lavoro duro. Prima di tutto dal cambiamento delle norme, a cominciare dalla Lega. Di fatto, presidente e direttore generale hanno pochissimi poteri dovendo passare per qualsiasi azione dal consenso dell’assemblea. Poi dalla riforma dei campionati con la riduzione delle partecipanti e l’inserimento delle seconde squadre. Quindi lavorare sul prodotto, aumentando i ricavi aggredendo nuovi mercati e migliorando il rapporto con gli interlocutori principali: tifosi e calciatori».

È così importante la riforma dei campionati?

«Ridurre il numero delle squadre e conseguentemente delle retrocessioni vorrebbe dire elevare il livello della competizione e normalizzare l’andamento economico delle società. In sostanza rendere questo meno legato a quello sportivo come accade ora. Le distanze dei ricavi tra Serie A e B è tale che retrocedere può essere l’anticamera del fallimento. Solo con minor squadre si può pensare a un vero paracadute per chi retrocede. Da noi, attualmente, è di un anno, in Inghilterra di 4. Una differenza notevole. Questo anche per la natura struttura proprietaria dei nostri club».

Vorrebbbe dire?

«Da noi il calcio si è sviluppato attraverso gli investimenti delle grandi famiglie. Dal ’95 a oggi, hanno fatto ricapitalizzazioni per 3 miliardi circa, ciò ha comportato che non ci si preoccupasse di costruire un sistema virtuoso. La stessa cifra in Inghilterra è servita per costruire stadi».

Cosa possiamo importare dagli altri Paesi?

«Il calcio italiano si è seduto sulle risorse che i proprietari hanno destinato ai loro club senza pensare allo sviluppo del prodotto. Questo ha fatto nascere il gap con gli altri Paesi».

In che termini?

«Un singolo club, da solo, non può aggredire i mercati esteri, ci vogliono una Lega e un campionato forti. La Premier League nel ’96 fatturava cento milioni in più della A, oggi ne fattura un miliardo. Gli inglesi hanno investito negli stadi e si sono concentrati sul campionato. Oggi incassano 900 milioni di diritti esteri contro i 120 italiani. Hanno portato avanti un progetto industriale: noi dobbiamo fare altrettanto».

E in Germania come hanno risolto la crisi?

«Le società si sono date regole molto ferree sull’equilibrio gestionale e in più hanno un modello di governance totalmente innovativo. A un investitore è impedito di avere più del 50% delle quote azionarie, e le decisioni rilevanti sono prese dall’associazione sportiva con una forte responsabilizzazione degli amministratori e dei manager. Hanno fatto sacrifici rinunciando per alcuni anni alla competitività in Europa ma, nel frattempo, hanno ristrutturato il sistema e investito negli stadi, grazie anche al Mondiale 2006».

Da noi gli stadi di proprietà sono ancora lontani

«In attesa di costruire o ristrutturare gli impianti possiamo migliorare l’attenzione verso il tifoso e quindi l’ambiente in cui si svolgono le partite. Penso ai settori per le famiglie, ai villaggi intorno allo stadio, a forme di intrattenimento e alla riduzione dei prezzi in alcuni settori. Migliorando l’ambiente diamo anche una risposta culturale alla violenza. Dobbiamo creare un atmosfera di gioia e non un mordi e fuggi della partita».

Possiamo essere ottimisti?

«Al momento c’è un vento diverso nel Paese che si riflette anche sul Coni, questo aiuta la spinta al rinnovamento. Il calcio ha la forza per ritrovare credibilità e rivedere i suoi processi interni purché cambino le norme e quindi si abbiano gli strumenti per riformare davvero».

 

 

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