(A. Monti) Certo, raddrizzare la baracca affidando il rinnovamento a una coppia di arzilli navigatori di lunghissimo corso come Carlo Tavecchio e Mario Macalli – 147 anni in due – con Claudio Lotito nel ruolo di maître-à-penser è una prospettiva bizzarra. Francamente, sarebbe meglio evitare. Ma è quanto può accadere in Figc nel rispetto di uno statuto, figlio di una legge discretamente scellerata, che attribuisce ai dilettanti e alla Lega Pro quattro volte il peso politico della Serie A. Una governance da cooperativa applicata a un’industria multinazionale. La crisi del nostro pallone è un gomitolo di paradossi, ma basta questo per capire che non è soltanto questione di nomi.
Niente di personale, insomma: a parte qualche fastidioso conflitto d’interesse sulla questione dei campi in erba sintetica, l’ottimo Tavecchio ha saputo valorizzare abilmente il mondo dilettantistico fino a farne l’azionista di riferimento della Federazione. Tuttavia, se il film è quello della ricostruzione, prima di scegliere gli attori occorre chiarirsi sul copione. Che cosa dev’essere la Figc? Nel caso si intenda semplicemente scegliere il c.t. della Nazionale, gestire gli equilibri finanziari della mutualità e litigare con il Coni sull’entità del contributo, la continuità gestionale è insita nel programma. Se invece la federazione vuole diventare veramente il motore del nostro calcio – mettendo mano alla riforma dei campionati, dello statuto e dei regolamenti, del settore tecnico – allora conviene individuare con il più ampio consenso possibile non uno, ma parecchi interpreti all’altezza dei vari ruoli.
Una squadra a cui si richiede fra l’altro di interloquire autorevolmente con la politica, le istituzioni internazionali e una concorrenza dai denti assai affilati. Un appello a chi se la sente: bando ai calcoli e alle timidezze, servono proposte, fuori i curricula (e non solo), astenersi perditempo. Perché, da qui alla metà d’agosto, il tempo è davvero poco per ritrovare una lucidità e un’unità d’intenti ormai confinate alla memoria dei meno giovani insieme ai rimpianti per il vecchio, caro Totocalcio.
Le dimissioni immediate di Abete, ineccepibili sul piano morale, hanno il difetto politico di aprire una voragine che nessuno sembra in grado di colmare. Ci vorrebbe un punto di riferimento. Un soggetto forte. Ma l’afasia della Lega di A, così loquace e determinata quando si tratta di riaprire la partita sui diritti tv che Sky aveva legittimamente vinto sul campo, dimostra ciò che da tempo denunciamo: il re è nudo, ormai si specchia nei propri egoismi e nell’illusione del potere. In realtà, la campana suona anche per gli inquilini di via Rosellini.
L’anno zero del nostro calcio e della Figc corrisponde a quello della cosiddetta Confindustria del pallone. Con ogni evidenza, egregi presidenti della Serie A, il condominio rissoso che avete messo in piedi non serve più neppure a voi. O meglio, ai migliori di voi. Produce un brutto spettacolo sul campo e fuori, presto vi crollerà addosso. L’occasione per uscirne è adesso, con uno scatto riformatore che alla lunga gioverebbe a tutti. La verità che sta al fondo di tutte queste beghe è una sola, e il bar sport che ci onoriamo di rappresentare l’ha individuata da tempo: il calcio italiano, tutto il calcio italiano compresi noi giornalisti, ha perso di vista il pallone. Capello si è tirato addosso un’iradiddio dicendoci in un’intervista che le delusioni in Champions di una signora squadra come la Juve sono la conseguenza di «un campionato poco allenante».
L’esito del Mondiale brasiliano prova che ha ragione. Ci siamo persi dietro i giochi di denari e di poltrone, abbiamo importato stranieri di dubbia qualità con operazioni quanto meno opache mentre quelli buoni se ne andavano, soprattutto abbiamo umiliato e rinnegato la nostra scuola, quella che per stare agli anni recenti ha prodotto i Baggio e i Maldini, i Pirlo e i Buffon. Ciò che è mancato sui prati brasiliani non è l’onore, bensì il talento delle nuove generazioni. Quello che si individua e si costruisce negli anni con l’organizzazione, come mostrano gli esempi spagnoli, tedeschi, olandesi, belgi e persino svizzeri. Tavecchio o non Tavecchio, da qui bisogna ripartire. A margine dell’eliminazione con l’Uruguay vi avevamo promesso un’inchiesta approfondita sui mali del nostro calcio. E sui modi per guarirli. Oggi trovate la prima puntata di una serie curata, guarda caso, da una squadra di giovani talenti giornalistici. Non hanno avuto ombra di dubbio su dove cominciare: dal campo naturalmente. Dai vivai e dalle scuole calcio che sfornano, o dovrebbero sfornare, i campioni di domani. Rimarranno prediche inutili come quelle, ahinoi, della serie «Il calcio che vogliamo» che pure tanto successo ha avuto tra i lettori? Non vogliamo crederci. Il bello del pallone è che c’è sempre un altro secondo, un minuto, un tempo, una nuova partita per rialzarsi. E tornare a vincere.