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GAZZETTA DELLO SPORT La rivoluzione di Albertini: “Una Serie A a 18 squadre rose a 25 con 10 dai vivai”

Demetrio Albertini
Demetrio Albertini

(M. Iaria) Tornare a parlare di calcio, quello vero, non le alchimie di bilancio o gli strapuntini di palazzo. Demetrio Albertini sarà pure un inguaribile romantico, ma la scommessa che ha lanciato sfidando Carlo Tavecchio nella corsa alla presidenza federale è quanto di più pragmatico: richiamare la ciurma all’ordine, imbarcarsi nel mare in tempesta e provare dal di dentro a cambiare le cose. Di lotta e di governo. O meglio, governo di lotta. Sono i sogni di una carriera – due terzi trascorsa calpestando un prato e sollevando coppe e un terzo passata dietro una scrivania nelle stanze della Figc o nelle commissioni di Fifa e Uefa – che vorrebbe tramutare in fatti. Ma il “pallottoliere” elettorale lo dà in netto svantaggio, nonostante la spinta della gente, e poi, semmai riuscisse a spuntarla l’11 agosto, si scontrerebbe con un sistema decisionale modello consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè bloccatissimo. Il primo a saperlo è proprio lui, che spera ancora che i grandi elettori raccolgano il suo appello.

Albertini, partiamo proprio dalla radice di tutti i mali del calcio italiano: la mancanza di una visione prospettica, rivolta al bene comune, l’impossibilità di riformare davvero perché ognuno vuol difendere la propria rendita di posizione. Come se ne esce?
«Non c’è dubbio che in Federazione regni l’ingovernabilità. Due componenti, Dilettanti e Lega Pro, hanno il 51% e possono eleggere da sole il presidente ma non hanno la maggioranza in consiglio e non possono governare. Credo che si debba superare l’attuale struttura direttiva della Figc. A ciascuno il suo. Io immagino, dentro il consiglio federale, la creazione di due “consigli d’amministrazione” specifici per l’area professionistica e quella dilettantistica, ognuno con le proprie competenze. Così, peraltro, si potrebbero avere rapporti più diretti con Coni e Governo, che va sollecitato sullo ius soli, per far sì che chi nasce in Italia sia italiano anche per lo sport, e su una legge per il volontariato sportivo».

Di cosa dovrebbe occuparsi questa sorta di cda dei professionisti?
«Innanzitutto della riforma dei campionati, ma che sia organica e armonizzata. Il mio disegno di cambiamento presuppone che tutti i pezzi vadano al loro posto, altrimenti è inutile cambiare. Solo così il massimo campionato potrà tornare a confrontarsi con le giuste credenziali con l’Europa e le altre categorie potranno dedicarsi alla formazione e alla territorialità».

Nello specifico?
«Una Serie A a 18 squadre, una B a 20 e una Lega Pro che è stata appena ridotta a 60, dopo tanti anni, e quindi non è detto che debba scendere ulteriormente. Quello che mi interessa è la sostenibilità finanziaria: negli ultimi tempi abbiamo perso troppe realtà, le ultime Padova e Siena. Ma la riduzione delle partecipanti è solo il primo passo. In A ciascun club dovrà avere rose con un massimo di 25 giocatori e un minimo di 10 locali, cioè cresciuti nei vivai, indipendentemente dalla nazionalità perché l’Unione europea non ce lo consentirebbe».

E come si valorizza il nostro patrimonio di calciatori? «Di certo non serve bloccare gli extracomunitari. Il tetto è un falso problema che va superato. Non sono gli extra Ue che frenano la crescita del movimento della Nazionale: in squadra potresti avere 11 francesi, tutti comunitari, e nessuno convocabile. Dobbiamo puntare sulla qualità. Da un lato l’obbligo di utilizzare gli elementi formati nei settori giovanili italiani, dall’altro l’apertura delle frontiere, all’interno dei flussi decisi dal Governo, per essere più competitivi sul mercato globale».

Non sarà contenta l’Aic, che sugli extracomunitari ha condotto battaglie campali.
«Ma io sono Demetrio Albertini, punto e basta. Mi rivolgo a tutti. Non mi riconosco in questo calcio, va fatto qualcosa. Ognuno si prenda le sue responsabilità e rinunci a qualcosa, altrimenti tra un po’ chiudiamo bottega. L’Italia deve essere un paese di transito e perdere ragazzi come Verratti o Immobile, oppure vogliamo produrre talenti e mantenerli in casa? L’attuale sistema di valorizzazione dei giovani non funziona. La Serie A deve guardare al lavoro delle categorie inferiori e premiarlo facendo fare il salto a prospetti validi che poi giochino davvero».

Come? «Le seconde squadre restano la ricetta giusta per me. Lo dico a ragion veduta: Messi fece le sue prime partite con me al Barcellona provenendo dal Barça B. Mi convince pure la collaborazione tecnica sull’esempio di quella tra Inter e Prato. Quanto alle multiproprietà, mi piacciono di meno perché non ci sono solo finalità sportive. Di sicuro qualche innovazione va introdotta per rendere più formativi i campionati di B e Lega Pro e spingere la A a pescare in quei bacini».

Il calcio continua a essere, nonostante tutto, il più grande fenomeno sociale del nostro Paese. Ma perché siamo caduti così in basso in termini di qualità? C’è un problema anche alla base, oltre che al vertice della piramide?
«Sì, stiamo perdendo tesserati, stiamo parlando di tante altre cose ma non di calcio. Il mondo dilettantistico deve fare di più su formazione e reclutamento, dialogando con la scuola e tenendo conto di un Paese con mille differenze: fare calcio in Lombardia è diverso che farlo in Sicilia. Quando dico di rimettere al centro il calcio giocato parlo dei ragazzi, non solo dell’élite milionaria. All’estero sanno ingrossare le file del movimento: è come quando fai rotolare una palla di neve, diventa sempre più grande fino a essere travolgente. Per fortuna c’è tanta passione. Penso a quell’allenatore in provincia di Perugia che ha mandato una lettera alla mamma di un bimbo che aveva lasciato la squadra dicendole che il figlio non sarà stato il migliore tecnicamente ma era il più attento, quello più bravo a fare gruppo e a esplorare i suoi limiti. Questi sono i valori del calcio, di un calcio inclusivo ».

Parla così ma lei è uno su mille che ce l’ha fatta.
«Se ce l’ho fatta, oltre alla fortuna e alle capacità, è stato per la passione che si respirava nei campetti di provincia. Ricordo mio padre che non si stancava mai di portarmi a Seregno per gli allenamenti, e così tanti altri genitori. E se ho debuttato a 17 anni in Serie A e poi ho fatto la carriera che ho fatto, lo devo alla formazione che ho ricevuto. C’era un sistema che ti consentiva di arrivare in alto. Certo, il mercato era al 90% interno, ora il mondo è globalizzato e non si può paragonare il mio calcio con quello attuale».

Ha parlato di formazione. Quali novità introdurrebbe?
«Intanto gli allenatori specifici per i giovani, con un percorso di formazione ad hoc. Da noi l’esperienza nei settori giovanili è vista solo come un trampolino di lancio per sperare di arrivare, magari, in Serie A. Coverciano deve essere riportato agli antichi splendori, nel segno della modernità. La Federazione è fatta di persone, di allenatori preparati che vadano in giro a insegnare calcio. Le società chiedono questo a Coverciano, che potrebbe formare quelle competenze da spedire nei centri regionali che la Lega dilettanti sta creando sul territorio e che vanno ora popolati».

Che progetto ha per la Nazionale?
«Oggi quel che manca è la possibilità di scegliere. La Nazionale va di pari passo con i risultati dei club: basti pensare a Spagna e Germania. Se fai qualità, dopo avrai calciatori di qualità anche per la maglia azzurra. Col Club Italia abbiamo cercato di supportare tutte le rappresentative con formazione, esperienze all’estero, metodi simili d’allenamento. In 4 anni abbiamo ottenuto un secondo posto con l’Under 17 e con l’Under 21, la Nazionale maggiore è arrivata seconda all’Europeo e terza alla Confederations».

Sì ma i tifosi hanno negli occhi il disastro in Brasile. Un po’ di autocritica no, visto che era a capo della delegazione?
«Sono stati 8 mesi di lavoro intensi, con tre viaggi preparatori oltreoceano. Crediamo di aver messo nelle migliori condizioni possibili il nostro gruppo, ma poi la prestazione dei giocatori è quella che conta. Io non vivevo lo spogliatoio da dentro, ma a fianco. Ognuno aveva le sue responsabilità: io sono stato partecipe di quelle organizzative, a Prandelli era affidata la gestione della squadra».

Non è stato inopportuno annunciare le dimissioni da vicepresidente Figc e capo del Club Italia proprio alla vigilia della partenza per il Mondiale?
«È stato proprio quello il momento giusto. Di fronte all’impossibilità di fare in Federcalcio ho ritenuto di dover uscire. Dirlo prima ha consentito di scindere la mia decisione dal risultato sportivo».

Cosa è andato storto in Brasile?
«Non è vero che c’è stato uno scontro tra giovani e vecchi. Avendo vissuto da vicino, ho notato che è mancata quella fascia intermedia tra chi aveva grande esperienza internazionale e chi si affacciava per la prima volta alla Nazionale. È mancato l’approccio al grande evento».

Ora è tornato. Perché?
«Potevo denunciare e salutare, o mettermi a disposizione per cambiare marcia. Non posso pensare che non si possa fare niente. E poi tanta gente mi ha convinto».

Tavecchio è in netto vantaggio e le sue possibilità sono scarse.
«Non ho mai fatto una corsa sui numeri, ma sulle idee e sulla voglia di cambiare. Io e Tavecchio siamo due persone con percorsi completamente differenti e tipi di rappresentanza diversi. Posso essere un’opportunità, chi la vuole cogliere la colga».

 

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