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IL TEMPO Pallotta, il presidente diverso

Pallotta
Pallotta

(A. Austini) Hanno scoperto della sua esistenza strada facendo, quando è spuntato con irruenza alle spalle dell’uomo di facciata Thomas DiBenedetto. Lo hanno accolto con diffidenza, discusso, contestato. Spesso non lo hanno capito, perché parla una lingua diversa. In tutti i sensi. Qualcuno lo ha amato e appoggiato dall’inizio, un partito in crescita esponenziale negli ultimi mesi. Facile: la Roma ha ripreso a vincere e nel frattempo non ha mai smesso di comprare (e vendere) giocatori a suon di milioni. Poi sono arrivati la Juventus, l’arbitro Rocchi, i gol irregolari e le parole di fuoco. E, improvvisamente, siamo tornati al punto di partenza: Jim Pallotta è l’uomo che divide l’universo romanista. Troppo morbida la sua linea sui fatti di domenica, dicono gli accusatori. Troppo distante dallo sfogo accorato e sincero di Totti. Troppo «eticamente corretto» se vuole partecipare a un gioco in cui le regole sono scritte ma non sempre vengono rispettate. Insomma il bostoniano non sarà mai il rappresentante di quello «sdegno romanista» che da anni accompagna la lotta alla potenza del calcio nordista. Il problema non è di volontà, ma di sostanza. Pallotta per primo non si sente e non vuole essere tutto questo. Quando dice «diamoci una calmata e pensiamo alle prossime vittorie» prova a ricordarci che il calcio è molto più business che sentimento. E un «padrone» ha sempre il dovere di stimolare i suoi dipendenti a prescindere da quello che succede all’esterno.

Lo ha fatto anche il 27 maggio 2013 e nei giorni seguenti. Lui che non si capacitava di come a Trigoria nessuno riuscisse a darsi pace per quella sconfitta nel derby di Coppa Italia: «Ma davvero pensate sia la fine del mondo? Piuttosto ditemi quale allenatore possiamo prendere e quali giocatori». Ecco, se chiedete a un dirigente come ha fatto la Roma a rinascere così velocemente da quelle macerie, vi risponde che c’è riuscita solo perché aveva alle spalle una proprietà straniera, immune dal dramma sportivo vissuto in città. Lo stesso approccio freddo ha consentito di vendere i migliori due giovani di quella squadra, Lamela e Marquinhos, di liberarsi di Benatia come se fosse un peso e di dimenticarlo nel giro di 90 minuti giocati alla grande da Manolas.

Perché allora cambiare adesso? Pallotta non ha mai pensato di farlo, neppure di fronte allo scempio dello Stadium a cui ha assistito in prima persona. Smaltita la rabbia del momento, è sceso negli spogliatoi a complimentarsi con la squadra e pochi minuti dopo era di nuovo sull’aereo. Pur condividendo al 100% l’amarezza di Totti e dei tifosi, ha subito captato il rischio della rassegnazione della squadra e ha deciso di intervenire. In sostanza: la pensa come il capitano ma ritiene che nel suo ruolo non sia giusto dirlo. A costo di sembrare in contrapposizione.

Se la Capitale lo contesta, il resto d’Italia lo applaude. A cominciare dal presidente del Coni Malagò. «Ha dato una lezione di stile. Dico dal primo giorno che siamo un paese dalla scarsissima cultura sportiva». Così non deve sorprendere che il pensiero di Pallotta sia più vicino a quello di Buffon rispetto alle parole di Totti. «Gli uomini vincenti trovano sempre una strada – ha detto il portiere juventino al sito della sua Carrarese – i perdenti una scusa. Non dare dare adito a scusanti o alibi come farebbero i mediocri, ma al contrario rimboccarsi le maniche». Un chiaro riferimento alle lamentele giallorosse, ma non diretto, così Conte non potrà mettergli il silenziatore come ha fatto con l’incauto Bonucci. Pallotta, intanto, è a Londra per il convegno dei «Leaders» dello sport mondiale. Tra un’intervista e un’altra – ne ha concesse una decina solo ieri – ha avuto modo di ricordare che sta inseguendo «la stabilità» della Roma e non è venuto qui «per fare soldi». Quelli, per sua fortuna, riesce a farseli prestare dal mondo intero e moltiplicarli. Il cuore dei tifosi non può comprarlo, ma è convinto che prima o poi saranno a consegnarglielo. Basta poco, in fondo. Uno scudetto.

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