(M. Pinci) – Più Pasolini che Totti, più teatri che stadi. Quando domani sera entrerà all’Olimpico alla guida del Bayern per la prima da avversario dei giallorossi, difficilmente Pep Guardiola riuscirà ad attingere a un campionario di ricordi di quello stadio, di quel pubblico. In fondo nei sei mesi passati da calciatore nella capitale, tra il 2002 e il 2003, sul campo ha trascorso la miseria di 229 minuti, divisi in appena 4 gare. Silenzioso, quasi invisibile: così lo ricorda a Trigoria chi c’era ieri e oggi è ancora lì. Sei mesi arrivando a parametro zero dal Brescia prima di supplicare la società di lasciarcelo tornare: eppure Roma l’ha vissuta avidamente, curioso di conoscere il più possibile della città, scoprirne immagini, odori e soprattutto sapori. In una notte di Bilbao, amichevole estiva di precampionato, a un giornalista che in hotel gli chiedeva considerazioni sulla squadra replicò: «Dopo ne parliamo, prima mi racconta come si fa la pasta alla carbonara?». La passione per la cucina romana l’ha poi coltivata durante lunghe cene con Franco Baldini, all’epoca direttore sportivo romanista, tra un Georges Simenon e un Leonard Cohen. La prima volta a San Lorenzo, quartiere storico e popolare, nel mitico ristorante Pommidoro, il tempio che accolse le notti di Pier Paolo Pasolini. Un tuffo in un mondo che lo spagnolo conosceva solo su pellicola: eppure a Roma sembrava di essersi preparato tutta la vita. Forse perché si erano sfiorati anni prima, nel ‘98, quando Sensi offrì 300 milioni di pesetas senza riuscire a strapparlo al Barcellona, ma certo quel muscolo vibrante di storia antica e contemporanea, tra Fori e Dolce Vita, lo affascinava da sempre.
Ne conosceva anche i suoni: per credere domandare a Francesco De Gregori, che se lo ritrovò davanti, una sera, con gli occhi spalancati a dirgli «sono un suo ammiratore». Difficile crederlo per il Principe, deve averlo capito lo stesso Guardiola, che per convincerlo improvvisò qualche nota di alcune sue canzoni: sufficienti a lasciare senza parole il cantautore. Pochissime discoteche, tanti teatri: niente serate al Piper Club, meglio l’Ambra Jovinelli. La squadra stanziata alla periferia sud tra l’Eur e Casal Palocco, lui lontanissimo, seguendo il consiglio del solito Baldini: «Pep, resta in centro, la vera Roma è qui». Così il “medio-centro” che solo un anno prima aveva salutato la casa madre Barça con la gente in piedi e il coro di With or without you degli U2 a riempire il Camp Nou, si convinse a prendere casa a due passi dal Pantheon, tra un caffè al bar Sant’Eustachio e un occhio al Caravaggio di San Luigi dei Francesi. Trigoria era lontana, fisicamente e nei pensieri: sarà stata quell’accoglienza da dopato, con domande affilate fin dalla prima conferenza stampa sulla positività al nandrolone che lo aveva costretto a una squalifica di 4 mesi e a sostenere visite mediche infinite nei laboratori dell’Acqua Acetosa. Sarà che nella Roma che stentava Capello lo vedeva poco («Troppo lento»)preferendogli i muscoli di Emerson, Tommasi, persino del carneade brasiliano Lima.
Sarà che in testa Pep aveva già altro: «Era pronto per fare l’allenatore — ricorda l’ex attaccante Marco Delvecchio, suo compagno in quei giorni romani — se capitavi in panchina vicino a lui lo sentivi, sapeva sempre dove intervenire quando la squadra non andava. Aveva una propria idea di calcio chiara, vedeva prima degli altri come sarebbe andata la partita». In quei giorni, forse, Guardiola capì che Roma poteva diventare la sua palestra mentale: passava ore a parlare con i ragazzi aggregati in prima squadra, quello che poi avrebbe replicato nella cantera del Barça, spiegando il gioco che aveva in mente. Uno di loro aveva vent’anni e giocava nel suo ruolo, “medio-centro”: correndo lungo il campo con lui in allenamento gli parlava di possesso palla e transizioni al ritmo di passaggi corti e rapidi, di centrocampisti vicini e inserimenti veloci. Era l’idea embrionale del tiki-taka che avrebbe scritto la storia del Barcellona. Daniele De Rossi, a distanza di undici anni, ancora se lo ricorda.