(L. Pisapia) – Ashley Cole, suo malgrado, come simbolo dei giocatori provenienti dal campionato inglese che falliscono in Serie A. Il suo difficile inserimento, chiamiamolo così, è sublimato nell’immagine della partita di Champions League della Roma con il Bayern Monaco all’Olimpico: costantemente umiliato da Robben prima di essere sostituito a fine primo tempo, nelle pagelle del giorno dopo è unanimemente considerato il peggiore in campo.
Il terzino inglese, che tra Arsenal e Chelsea ha vinto tre campionati, una Champions League e svariati altri trofei, nel campionato italiano ha collezionato solo sette presenze con voti spesso sotto la sufficienza. Come lui si tanno dimostrando (finora) un mezzo fiasco anche il francese Patrice Evra e il serbo Nemanja Vidic, alla Juve e all’Inter dal Manchester United, e lo spagnolo Fernando Torres, prima Liverpool e Chelsea e poi Milan. Tutti giocatori non britannici ma provenienti dalla Premier League. Tutti casi a loro modo diversi. Torres è una scommessa mancata, dopo un grave infortunio da quattro anni non è ancora tornato ai suoi livelli. Evra e Vidic (33 anni) sono giocatori sul viale del tramonto che come Cole (34) hanno scelto una dorata pensione ai tropici italiani, ma a differenza del romanista hanno anche dovuto adattarsi alla difesa a tre, con cui mai hanno giocato prima.
E come ricordava Mourinho proprio l’aspetto tattico, che al di là dei moduli è l’attenzione parossistica che si pone in Italia su alcuni movimenti del corpo, è la principale differenza tra i due campionati. In Gran Bretagna c’è meno pressione, ci si allena meglio, il giorno della partita ci si ritrova allo stadio senza dover andare in ritiro la sera prima: e questo è il primo blocco psicologico che impedisce ai calciatori provenienti da oltremanica di liberare la loro potenza.
PERCHÉ il dato è storico. Lo scozzese Denis Law nei primi anni Sessanta al Torino è ricordato più che altro per la bella vita, diventerà un fuoriclasse da Pallone d’Oro a Manchester. E per un gallese come John Charles che negli stessi anni ha fatto grande la Juventus (capocannoniere e tre scudetti) ce n’è un altro come Ian Rush che della Serie A degli Anni Ottanta è uno dei flop più clamorosi: fenomeno a Liverpool prima e dopo la parentesi bianconera, a Torino non ingranò mai. Il principe del fallimento resta comunque Luther Blissett, centravanti inglese arrivato dal Watford al Milan nella stagione 1983-84, entrato nell’im – maginario collettivo grazie ai suoi incredibili errori sotto porta e a un gruppo di scrittori che ne ha assunto il nome.
Il maggior numero di giocatori britannici arriva in Serie A tra gli anni Ottanta e Novanta, quando da noi si aprono le frontiere e da loro non è possibile giocare le Coppe per la tragedia dell’Heysel. Se ne salvano pochi, pochissimi: il nordirlandese Liam Brady (due scudetti con la Juve e poi Samp, Inter e Ascoli), l’inglese Trevor Francis e lo scozzese Graeme Souness (dalle Coppe dei Campioni con Nottingham e Liverpool alla Coppa Italia con la Sampdoria) e l’in – glese David Platt (benissimo a Bari, male alla Juve e di nuovo bene alla Samp). Poi ci sono i dimenticabili arrivi di Paul Eliott (Pisa), Gordon Cowans e Paul Rideout (Bari), Des Walker (Sampdoria) e di giocatori sul viale del tramonto come Tony Dorigo (Torino) e Lee Sharpe (Sampdoria).
MENTRE grandissimi giocatori come Paul Gascoigne (un brutto infortunio alla Lazio), Paul Ince (male la prima stagione all’Inter, meglio la seconda), Mark Hateley (un gol indimenticabile nel derby e poco altro) e Ray Wilkins (an – che lui al Milan) sono stati beniamini dei tifosi per l’impe – gno, lo stile e la personalità. Ma in campo non hanno mai girato, salvo poi farlo di nuovo una volta tornati in patria.
È qui che subentra quella che è probabilmente la ragione principale. Negli anni Ottanta e Novanta la Serie A è il campionato più ricco e all’avan – guardia del continente, e i britannici qui faticano. La controprova è che italiani considerati a fine carriera come Zola, Di Matteo, Vialli, Lombardo e Carbone una volta sbarcati in Premier fanno faville. Da una decina di anni però la situazione si è ribaltata: la Premier League è il meglio e alla povera Serie A oggi è permesso solo di importare gli scarti o i pensionati. Con le eccezioni di Tevez e Gervinho, che abituati ai ritmi forsennati della Premier qui diventano imprendibili, gli altri – da Beckham a Cole, Vidic, Evra e Torres – sono parametri zero o saldi estivi che dopo aver dato il meglio in un torneo più difficile, di cui evidentemente non reggevano i ritmi, hanno scelto una dorata pensione in Serie A. Se a fine secolo il fallimento dei giocatori britannici in Italia poteva essere un vanto, oggi è lo specchio del tracollo dei club italiani: tristi tropici del pallone continentale.