(A. Catapano) Ricorso o no? La Roma non ha ancora deciso se appellarsi contro la sentenza Tosel, considerata un’«evidente forzatura giudirica, figlia di un particolare contesto politico», oppure rinunciare per ragioni di opportunità. In ballo, sostengono i dirigenti giallorossi, oltre alla salvaguardia dell’immagine del club, c’è la «doverosa» tutela di 14mila abbonati, tantissimi, molti dei quali, pur completamente estranei ai fatti, finirebbero ancora una volta penalizzati «ingiustamente».
Alla base del ricorso, comunque, c’è la volontà di avere una «corretta applicazione delle norme, che è interesse di tutti, non solo dei romanisti», fanno sapere da Trigoria. Solo ieri sera i legali del club hanno ricevuto la relazione dei collaboratori della Procura federale, in cui si segnalano i due striscioni e i cori discriminatori citati nel comunicato del giudice sportivo. Probabilmente Pallotta non scioglierà le riserve prima di lunedì, ma a Trigoria sono convinti di aver raccolto già il materiale sufficiente a «smontare» le motivazioni di Tosel: possibile, è la tesi del club, che la responsabilità oggettiva (della Roma) debba essere punita più di quella diretta (degli autori degli striscioni che, se mai identificati, molto difficilmente saranno colpiti da Daspo?).
PARADOSSO Oltretutto, la Roma rivendica di essere un «laboratorio» e un «modello di organizzazione». Sono le definizioni che più di una volta l’Osservatorio ha dato del club giallorosso. Tanto problematico il tifo, quanto, per il Viminale, esemplare la gestione della sicurezza all’Olimpico. Non a caso i servizi della Roma spesso vengono utilizzati anche per altro: ad esempio il Sei Nazioni di rugby e le finali di coppa Italia (non quella dello scorso anno). Tanto per dire, di recente è stata la Roma a proporre a Coni e Lazio di piazzare telecamere anche nei bagni delle curve, proprio dove vengono montati gli striscioni. Ma la richiesta non è stata accolta. Dunque, si chiedono: perché tante accuse?