(M. Mensurati/M. Pinci) Andrà a finire che i tifosi allo stadio li riporteranno i falconieri, se faranno per bene il loro lavoro contro i piccioni che, ogni domenica, con un gesto quasi simbolico, bersagliano di guano i pochi appassionati che ancora resistono alla tentazione di guardare le partite dal divano di casa. Ma fino a quel giorno il calcio italiano appare destinato ad assistere inerme a questa lenta agonica emorragia di tifosi dagli spalti.
Il dato è netto: negli ultimi cinque anni un milione di spettatori della serie A si è arreso. Buona parte della colpa è degli impianti. Strutture vecchie in media poco meno di settant’anni e che non registrano più del 58 per cento di affluenza ogni domenica, penultimo posto dietro la Francia tra i grandi campionati europei con appena 22mila anime a partita. «Il problema – spiega Carlo Longhi, ex arbitro che di stadi si occupa per conto di Figc e Lega – è che la gran parte di queste strutture è di proprietà dei comuni, e le società per spostare anche solo un armadietto devono passare attraverso lungaggini burocrtiche, senza considerare che la manutenzione di questi impianti è molto costosa, è un investimento. Il pubblico non ce la fa, al privato non conviene».
Di fronte a questa situazione, i club di serie A hanno reagito con due strategie. La prima è quella attuata dalla Juve (e sognata dalla Roma): costruirsi da zero uno stadio proprio e provare a sfruttarlo al meglio. La seconda, quella più battuta, è anche quella sulla quale ha ripiegato il Milan dopo aver deposto il progetto del nuovo stadio al Portello: ristrutturare. Che sembra facile, ma non lo è. Perché bisogna intervenire con capitali privati su beni pubblici, come spiega Longhi. Ed è così che nascono situazioni antipatiche, come quella esplosa qualche giorno fa quando Aurelio De Laurentiis, che un progetto per Napoli ce l’avrebbe pure, ha sbottato: «Il San Paolo è un cesso». Espressione brutale a parte, il concetto è abbastanza preciso. A cominciare proprio dalle condizioni dei servizi igienici: dal piano interrato dello stadio piovono torrette di escrementi, che si sono trasformate in ristori per i topi. Le toilette sono perennemente in manutenzione, inservibili, al punto che nelle gare Uefa per ottenere la deroga si tampona la situazione con bagni chimici. Fino a giugno il San Paolo era pure a rischio fiamme, almeno sulla carta: mancava la certificazione di prevenzione incendi. Per dieci anni (anche) per questo la commissione di vigilanza ha negato l’agibilità (provvedeva il comune a fornirla). Interventi strutturali mancano dai lavori per i Mondiali del Novanta, intanto pezzi di intonaco si staccano con cadenza quotidiana e si provvede al massimo con piccole riparazioni. Persino i seggiolini, per 3 centimetri, non sono a norma.
«Deroga»: è questa la parola chiave dell’impiantistica sportiva italiana. Il miracolo di un campionato che riesce a disputarsi a dispetto di ogni violazione, si compie in nome di questo concetto molto pilastro. «Che non è di per sé qualcosa di negativo – spiega ancora Longhi – perché ogni deroga viene sempre accompagnata da “misure compensative”. Ad esempio si può derogare dalle barriere di 220 centimetri aumentando gli steward». Negative o compensate che siano, quasi tutti i grandi stadi italiani si appoggiano alle deroghe: persino l’Olimpico, l’unico “a cinque stelle Uefa”, è stabilmente in deroga per consentire ai mezzi di soccorso, ambulanze e pompieri, di sostare nel tunnel sotto le tribune: nel ’90 sbagliarono le misure dell’altezza.
Non deroga, non ufficialmente, almeno, il Frosinone, nonostante i suoi appena 10mila posti e le curve fatte di tubi d’acciaio. «Ogni domenica mi tremano i polsi», confessa il Prefetto, condannato alla cardiopatia da una legge del 2005, che dispensa il Matusa dal mettersi a norma, per un anno, grazie alla condizione di neopromossa del Frosinone. Tra una deroga e un’altra, sognano un futuro diverso per il Castellani i tifosi di Empoli: 18mila spettatori la capienza, duemila in meno del minimo previsto. Ma il vero problema è quello – in comune con altri stadi italiani – dei piccioni. Inderogabile. In attesa dei falconieri.