(B. Saccà) Divertendosi a mescolare l’assurdo e uno spiccato senso della teatralità, la cerimonia della consegna del Pallone d’oro ha incrociato le strade del presente e del possibile futuro della Roma. Rudi Garcia e Jorge Sampaoli. Entrambi sono volati a Zurigo: l’argentino per correre verso il premio dedicato agli allenatori; il francese per necessario e urgente aggiornamento professionale, oltre che per accompagnare il “suo” Alessandro Florenzi, candidato al trofeo legato al migliore gol dell’anno. Elegante in un abito scuro, Rudi è riuscito nella duplice acrobazia di sciacquar via la polvere delle pressioni, e di indossare la maschera di una totale serenità. Si è mostrato alle telecamere piuttosto tranquillo, almeno in apparenza, e spesso ha allargato il sorriso. Chissà la mente, però, che ginnastica, a stendere strati di pensieri. Perché mentre a Zurigo l’andare della serata di gala fluiva nel lusso, a Roma i tifosi romanisti si domandavano, seri, quanti allenatori giallorossi sedessero in realtà nella platea della Kongresshaus. Due? Uno? Zero? Garcia? O forse Sampaoli?
ORGOGLIO – Ecco, il tecnico argentino, devoto fedele delle utopistiche idee tattiche di Marcelo Bielsa, è atterrato in Svizzera in compagnia della famiglia. Del resto a festeggiare aveva cominciato lo scorso 4 luglio allo stadio di Santiago, pilotando il Cile verso il trionfo della Copa America. Era nervoso ieri Sampaoli, perfino provato. Vestito nero, camicia bianca e papillon, si è accomodato e ha atteso la proclamazione del tecnico più bravo. Aveva fiducia e credeva nel sogno: ma alla fine è stato Luis Enrique a spiccare il volo. Intanto però il duello psicologico continuava a distanza. Rudi e Jorge. Neppure uno sguardo. Questione di orgoglio, e di professionalità. Una sfida nella grande sfida, a evitarsi. Eppure la scena rotolava nell’improbabile, a pensarci. Perché dondolare sul filo e avere anche la sfortuna di fissare negli occhi chi è pronto a subentrare non dev’essere esercizio semplice.
IN OSTAGGIO – Bisogna pure ricordare che Sampaoli vive un momento di esitazione, in bilico tra il calore addirittura eccessivo del Cile e il vento di una nuova esperienza. «Non voglio proseguire la mia esperienza con il Cile. Mi sento un ostaggio. Hanno colpito il mio onore e la mia dignità collegando il mio nome agli atti di corruzione riguardanti la precedente direzione. Tutto ciò è inaccettabile», ha tagliato subito. Già, c’è di mezzo una faccenda connessa a un versamento di denaro in un conto sprofondato in qualche paradiso fiscale. E la Roma? «È una grande squadra, qualsiasi allenatore vorrebbe allenarla, ma formalmente non ho parlato con nessuno», ha sussurrato. Formalmente no, è chiaro, non sarebbe stato corretto. Informalmente, però, sì. E questo tutti lo sanno: dal presidente ad interim della federcalcio cilena, Jaime Baeza, a Garcia. E allora ecco che il cerchio si è stretto e si è chiuso a Zurigo. Legno e velluto alle pareti, tra i corridoi della casa della Fifa. E Rudi e Jorge, bravissimi a inseguirsi e a dribblarsi. Come in un incubo, grande quanto il mondo. Da Trigoria a Miami.