(B. Saccà) – Il cerchio si è aperto in America e proprio in America, con ogni probabilità, si chiuderà. Da New York a Miami, dall’ingaggio all’esonero, dal grande sogno all’incubo più nero. Il viaggio romanista di Rudi Garcia si è allungato per quasi mille giorni: 945, per essere esatti, ad oggi. Ora il sipario è pronto per rotolare, perché in fondo lo spettacolo giallorosso è svanito da tempo. Quando un cammino si conclude è logico stilare bilanci e ricomporre figure, ricordare il bello e non dimenticare il brutto.
L’UOMO DERBY Dietro di sé Garcia lascerà soprattutto una scia di ambizioni evaporate, un mare di punti interrogativi, anche qualche palpito puro, non fosse altro per i derby mai persi e per un paio di sberle restituite alla Juventus. È poco. E poco si può opporre agli archivi che nulla si scordano. Così in superficie affioreranno la delusione e il rammarico, le occasioni perdute, le contraddizioni, perfino i paradossi. Non passerà molto, e i modi e le maniere Rudi si perderanno nella memoria, e chissà che alla fine l’intera fotografia della mappa tattica di Garcia non rischi di sbiadire a promessa non mantenuta. Perché, si dice, tutto passa: tutto ciò che non è importante. Eppure nessuno avrebbe nemmeno ipotizzato un esito simile, quel 12 giugno del 2013.
LE IMPRESE Era un mercoledì e Rudi Garcia stringeva la mano di James Pallotta a New York. «Siamo molto felici e fiduciosi della scelta di Garcia. Ha dato prova di essere un vincente e crediamo rientri nei nostri piani per il futuro», spiegò il presidente. Con la cura dell’artigiano e la motivazione del campione, Garcia allestì una squadra formidabile. Una squadra da record. Tanto che dal 25 agosto al 31 ottobre del 2013 la Roma infilò una sequenza da primato di dieci successi consecutivi in campionato. Trenta punti raccolti in dieci giornate, un’opera d’arte, un’impresa da imperatore di Francia. Fu un momento di gloria, e lì Rudi si consegnò all’arte dell’aforisma, inventandosi frasi come «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio», oppure «Il derby non si gioca ma si vince». Al tramonto della stagione, pur tagliando il traguardo degli 85 punti, un altro record, la Roma arrivò seconda con un ritardo di 17 punti rispetto alla Juventus. E nei tre turni finali, oltre tutto, subì addirittura tre sconfitte di fila, dimostrando in controluce già i tratti di una fragilità che presto si sarebbe rivelata catastrofica.
LA ROTTURA Tornati in Europa, i giallorossi esordirono il 17 settembre 2014, sbriciolando il Cska Mosca. Poi non vinsero più una gara di Champions: e, anzi, incassarono l’umiliante 1-7 interno contro il Bayern Monaco. Ecco, è stato quello l’istante in cui il mondo di Garcia si è spaccato, e la sua magia volatilizzata, e ogni caposaldo ricaduto sulla terra della realtà. Da allora, dal 21 ottobre del 2014, la Roma non è stata più la Roma di Rudi Garcia. Friabile, priva di un’identità, impaurita. Impreparata. Va annotata giusto la sfida persa contro la Juventus a Torino, quella dell’arbitro Rocchi («Rocchi-Roma 3 a 2», titolò Il Messaggero): nell’occasione Rudi si fece strada tra le sponde dell’eleganza e coniò la protesta del violino. Per miracolo i giallorossi riuscirono a tallonare i bianconeri fino al gennaio dello scorso anno: poi corsero il pericolo di regalare il secondo posto alla Lazio, e per sempre dovranno ringraziare Yanga Mbiwa, fortunato a risolvere il duello. A maggio, la conferenza-stampa della rottura: «La Juve è fuori concorso, il divario aumenterà e noi dobbiamo vendere prima di comprare», tuonò Rudi. Quindi la storia diventa cronaca. E racconta dell’indebolimento della figura del tecnico, dell’arrivo di nuovi preparatori, fedeli alla proprietà, delle figuracce rimediate dalla Roma a Barcellona (1-6), contro l’Atalanta, a Borisov e, più di ogni altra, contro lo Spezia in Coppa Italia. A Trigoria Garcia ha trovato l’amore. Adesso però è tempo di andare. La storia con la Roma è colmata.