REPUBBLICA.IT (M. PINCI) – Per le strade della capitale, il vento del derby soffia sempre più forte portando l’eco romanesco di una sfida di cortile. Ma a Roma, dove già circola insistentemente lo slang americano di Boston, potrebbe iniziare a diffondersi anche un po’ di cinese. Solo un bisbiglio, almeno fino ad oggi. Ma l’idea che a Trigoria possano issarsi le bandiere delle due maggiori potenze mondiali, è tutt’altro che remota.
Già, perché il fondo sovrano di stato, in Cina, potrebbe diventare il nuovo socio di minoranza nella Roma di Tom DiBenedetto. Della possibilità si starebbe occupando in prima persona il Chief Operating Officer della banca, Paolo Fiorentino: interlocutore privilegiato, il China Investment Corporation, fondo sovrano cinese con un’attività da 409 miliardi di dollari e interessato a investire per un ritorno a lungo termine senza chiedere ruoli attivi nelle società in cui partecipa. Sulla carta, il partner ideale per la banca, che guarda con entusiasmo a una soluzione simile, ancor di più per un club ristrutturato finanziariamente che punta a tagliare i costi e a produrre utili con la realizzazione di nuove strutture.
I primi contatti risalgono addirittura a marzo, quando la procedura di vendita della Roma non era ancora ultimata, anche se al gruppo Usa era già stata concessa la procedura esclusiva per la vendita del club. In quel momento, con il fondo di stato si parlò di una possibile partecipazione al capitale della Roma, nell’ambito di un più ampio discorso che riguardava anche il possibile investimento da parte del CIC nelle azioni di Unicredit, già per il 15 per cento in mano a fondi sovrani, compresi quelli del governo libico.
Nelle ultime settimane, le chiamate sull’asse Milano-Pechino sarebbero tornate di moda (soprattutto dopo l’incontro del ministro Tremonti con Low Jiwei, Ceo del China Investment Corp). A frenare ogni discorso, però, i patti parasociali tra l’istituto di credito e DiBenedetto: fino al 30 marzo, infatti, Unicredit potrebbe vendere una quota non superiore al proprio 25 per cento a imprenditori italiani qualificati. Dopo quella data, i partner Usa potrebbero esercitare il diritto di prelazione per pareggiare eventuali offerte. Ipotesi poco realistica, comunque. Unicredit, che ha interesse a capitalizzare la propria partecipazione e a evitare di iscrivere perdite sull’asset a bilancio partecipando a aumenti di capitale, gradirebbe dismettere in fretta. Una cosa è certa: se qualchecostruttore italiano avesse interesse a farsi vivo, sarebbe accolto a braccia aperte.