(D. Stoppini) – Zabaleta. Lui non progetta: esegue. Un capo cantiere che ci mette poco a diventare uomo squadra: a Manchester, nei giorni in cui il City acquistava Robinho, lui scrisse su un armadietto «Messi». Risate e avvertimenti: sappiate tutti che qui l’aria è buona, ma il livello è alto. Non una scommessa, Zabaleta, una di quelle che stracci un minuto dopo averla giocata. Ma certezza, nell’ordine, di professionalità, carisma, impegno e qualità: se lo stato fisico sorreggerà l’argentino, la Roma avrà fatto un salto in avanti grande così, pure di fronte a un triennale milionario per un 31enne.
IL PERSONAGGIO – Un giorno a Manchester i tifosi gli dedicarono uno striscione: «Corazon de leon». Per intendersi: c’è chi nelle ultime ore, su change.org, ha lanciato una petizione per spingere il City a organizzare in onore di Zabaleta un «testimonial match», una di quelle partite eventi che vengono dedicate, in Gran Bretagna, a chi ha vestito la maglia di un club per almeno 10 anni. Zabaleta è fermo a 8, ma la petizione va avanti: quasi 6 mila (al momento) i sottoscrittori. Questo per far capire perché Walter Sabatini s’è messo in testa Zabaleta. Preferibilmente a destra, spesso anche a sinistra, all’occorrenza pure a centrocampo (lì ha giocato pure la finale del Mondiale 2014): del Pablo giocatore è superfluo parlare. Magari è bene dipingere qualcosa del personaggio. Uno che è cresciuto in fretta. È nato a Buenos Aires, presto si è trasferito ad Arrecifes, poco più a nord. A 15 anni perse la madre – che porta tatuata sul petto e a cui dedica ogni successo –, già a 12 era andato via di casa per infilarsi nelle giovanili del San Lorenzo, club che dal prossimo trasferimento guadagnerà 120 mila euro come premio di formazione. «Sono maturato presto, non avevo amici né famiglia, dovevo fare tutto da solo – ha raccontato tempo fa –. Al San Lorenzo facevo tutto, pulivo persino gli spogliatoi dei più grandi. Ma per me non era un peso». Non è mai stato un peso neppure lui per le sue squadre. In Europa è arrivato grazie all’Espanyol. Una sera del 2008, in un locale di Barcellona, venne avvicinato da una giornalista, che gli cominciò a fare domande. Quella donna, Christel Castano, catalana, è oggi sua moglie: la proposta di matrimonio gliela fece sotto la Torre Eiffel. Romantico sì, «ma sono un uomo semplice, lo dicono tutti quelli che mi conoscono». A Manchester, i primi tempi, viveva nel quartiere di Didsbury, di fronte a un pub: «Io e Christel ci andavamo sempre per giocare a biliardo». Quella Christel che di sicuro sarebbe felice di un trasferimento nella capitale: «Qui a Manchester piove per almeno 185 giorni all’anno, il tempo è terribile», disse lei. A Roma non è/sarà così. Pablo però al City il tempo l’ha impiegato bene: nel 2012 13 fu votato «player of the year» dai suoi tifosi. Lui quasi arrossì: «Sono un lottatore, questo premio va dato ad altri». Ma la verità è tutta in un’altra delle sue massime: «Io credo che il calcio sia per il 30% qualità tecniche e il 70% mentalità. La seconda cosa richiede tempo e può essere un problema». Alla Roma lo sanno bene. Per questo gli hanno fatto una telefonata.