(S. Carina) L’uscita di scena è teatrale, in linea con il personaggio. Nei 90 minuti di monologo, intervallati qua e là da qualche domanda e dall’immancabile pausa sigaretta, Sabatini racconta i suoi 5 anni alla guida del club, dove «non ho mangiato, scritto, urlato, litigato o guardato le spalle di una donna senza sapere di essere il ds della Roma».
COMMISSIONI E TRIBUNALI Il suo è un mix di emozioni e rancori che inizialmente lo fanno commuovere, poi arrabbiarsi quando tocca il tema delle commissioni: «Il mercato si fa così, si acquistano giocatori attraverso le commissioni e allora io pago per comprare qualcuno. Dite ai tifosi che la Roma qualche cazzata la fa ma è una società onesta. Così come onesto e leale sono stato io in questi anni!». L’ora e mezza scorre via veloce e Sabatini mostra a turno le varie sfaccettature del suo carattere: istrionico, passionale, schietto, egocentrico, spigoloso, rancoroso e ironico. Novanta minuti nei quali ammette un solo grave errore «perché i calciatori li sbagliano tutti, quello che mi dispiace è non esser riuscito a portare a termine la rivoluzione culturale. Ossia pensare alla vittoria non come ad una possibilità ma ad una necessità. Qui invece si vince e si perde alla stessa maniera». Parole che pesano come un macigno.
I MOTIVI DELL’ADDIO Impiega 40 minuti per spiegare i reali motivi che lo hanno portato a risolvere in anticipo il suo contratto con la Roma. In realtà è il segreto di Pulcinella. Le sue dichiarazioni sono però la conferma di quanto spesso e volentieri è trapelato sui media nei mesi scorsi e frettolosamente bollato all’interno di Trigoria con l’etichetta di sciocchezze: «Sono cambiate le regole di ingaggio, io posso fare solamente il mio calcio. Il presidente e i suoi collaboratori, invece, puntano su altre prerogative: sulla statistica, sui meeting, stanno cercando un algoritmo vincente. Io vivo semplicemente d’istinto. Sarò sostituito da una struttura. Massara? Lui è un ragazzo educato, di estrazione sabauda, di madre francese funzionaria del Louvre. Nell’immediato toccherà a lui, poi non so che succederà». Ecco qui la conferma dei malumori covati per mesi sulle ingerenze della proprietà Usa che, attraverso la figura di Zecca, si è fatta sempre più spazio. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il mancato acquisto di Boyé, ora al Torino: «Quel calciatore (del quale non fa il nome, ndc) l’ho perso perché mi è mancata l’arroganza, la determinazione e la sicurezza di poter fare quell’acquisto che comportava un’operazione crassa. Sentendo alle mie spalle una serie di osservazioni giuste e corrette, ho perso l’attimo fuggente». E per uno che vive d’istinto, è qualcosa che non ci si può perdonare. In realtà c’è anche dell’altro. A gennaio, ad esempio, si era sentito limitato nel suo operato nel momento in cui avrebbe potuto prendere Perotti il giorno della Befana e invece dovette attendere il 31, perché prima doveva far cassa. Oppure nella scelta di Spalletti, dove gioco-forza fu costretto ad ascoltare i consigli («che non ascolto mai», dichiara sorridendo) che arrivavano da persone vicino a Pallotta, dal quale si sente distante «perché io sono un europeo crepuscolare, solitario, quasi un etrusco mentre il presidente è incline alle statistiche e alla frequentazione dei meeting».
LAMELA E IL TAPPO Dopo aver dribblato la domanda sul nuovo ruolo di Baldini «chiedetelo a lui o a Pallotta», racconta che vendere Lamela «mi ha ucciso anche se poi ne ho preso uno che ritenevo più forte». Sollecitato su Totti, scivola ancora una volta: «Gli darei il Nobel per la fisica viste le traiettorie e le parabole che fa o un pallone d’oro solo per lui. Rappresenta un pezzo di carne di gente che è cresciuta o è invecchiata con lui. Ha rimesso in discussione Keplero ma è un tappo. Irradia una luce così forte che gli altri restano in penombra. La sua luce abbagliante oscura tutto il gruppo, vista anche la curiosità morbosa che c’è su di lui. La sua presenza comprime la crescita del gruppo». Conoscendolo, ritiene di avergli fatto un complimento. Chissà se la penserà così anche il capitano. Rivendica i risultati ottenuti in campionato («Due secondi posti e un terzo, ci è mancata la convocazione al Circo Massimo per lo scudetto ma ho riportato la Roma a sedersi a tutti i tavoli del calcio che conta. Milan e Inter vorrebbero essere come noi»), dimenticando però il cammino europeo, caratterizzato da umiliazioni cocenti e l’altrettanto infelice viatico in coppa Italia con i ko storici con Lazio e Spezia. Prima di congedarsi, lancia un campanello d’allarme: «Quando migliorano i giocatori esiste un problema di stipendi insormontabili, dobbiamo tenerne conto». Il pensiero corre subito ai rinnovi di Nainggolan e Manolas: «I calciatori si devono rendere conto che abbiamo iniziato la stagione perdendo la qualificazione in Champions, un evento dannosissimo per l’azienda. Radja non è all’ordine del giorno, lui ha chiesto un adeguamento, la società sta valutando se farlo o meno. Non credo si farà, ci sarà un premio in base alle sue prestazioni. Non è comunque una priorità assoluta per noi». Da ieri, non lo è più soprattutto per lui.