(M. Pinci) Soltanto ieri, alla Roma regnavano il “calcio arrogante” di Sabatini e le “divisioni” di Spalletti. Oggi, un ds come Monchi può ammettere candidamente l’imminente cessione dell’egiziano Salah al Liverpool («Ma il prezzo lo facciamo noi»), sbattendo la porta in faccia all’Inter («Zero possibilità che Rudiger vada via»), senza succeda granché. Mentre un allenatore, dopo i propositi urlati come lo spallettiano “Se non vinco vado via”, si concede un vocabolario fatto di “umiltà”, “concretezza”, “entusiasmo”. Dribblando persino la parola scudetto: «Niente proclami, teniamo un profilo basso, dovremo fare risultato ma cercando di divertire ». La ricerca della normalità romanista ha un nome: Eusebio Di Francesco. Monchi lo ha scelto perché «rappresenta molto di ciò che ci serve: capacità di lavorare e competenza, e quello che ha fatto al Sassuolo è risaltato agli occhi di tutte le direzioni sportive del mondo».
Mentre Di Francesco cancella il trauma del passaggio dalla provincia ambiziosa alla metropoli orgogliosa: «Proporrò sempre il mio calcio, mi hanno preso per quello e voglio trasmetterlo alla squadra. Faremo la partita, credo nel 4-3-3 ma sono aperto a cambiare in corso di partita. Aziendalista? La squadra la costruisco insieme a Monchi, vero diretto’?». Ma anche con uno staff di 5 persone con cui dividere le responsabilità: il vice Tomei, l’osservatore Marini, il preparatore Vizoco, l’analista Pierini. Forse perché Di Francesco, 14° allenatore nelle ultime 14 stagioni romaniste, le difficoltà della piazza le conosce bene: ci arrivò nel ‘97 da centrocampista, a 28 anni, voluto da Zeman. Finì per vincere lo scudetto con Capello nel 2001 per poi andarsene, salvo tornare quattro anni dopo – su suggerimento di Totti e del fedelissimo Vito Scala – per fare da team manager a Spalletti.
Dopo quell’esperienza, aveva deciso di chiudere con il calcio: aprì uno stabilimento, Stella d’oro, a Pescara. Quasi per tornare a quando da bambino, dopo la scuola, serviva ai tavoli del ristorante-hotel dei genitori a Sambuceto, nemmeno 10 km da Pescara. A proposito di normalità. Proprio a papà Arnaldo, tifoso del Bologna, deve il primo legame col calcio: quel nome, Eusebio, appiccicatogli addosso in onore della leggendaria Pantera nera che trascinò il Portogallo al terzo posto Mondiale nel ‘66. Il figlio Federico, che nel Bologna ci gioca, è invece romanista: «Il suo idolo è De Rossi e anche per me è un modello, il primo a cui ho scritto. È il mio punto di riferimento: al di là che sia titolare o meno». Un modo per dire che sono tutti uguali. Pure Totti: «La società ha parlato con Francesco per quello che sarà il suo futuro da dirigente e a breve dovrà dare una risposta. Deve scegliere con il club, è abbastanza grande per farlo, io sarei felice di lavorare con lui». L’appuntamento tra il weekend e la prossima settimana. La Roma invece il suo nuovo abito l’ha già indossato: quello di una inusuale normalità.