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Roma, De Rossi: “Sono rimasto per amore”

De Rossi

Daniele De Rossi, capitano della Roma, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport. Queste alcune delle sue parole:

Perché è difficile vincere a Roma?
«Questo è un discorso che meriterebbe un’intervista tutta per sé. E’ difficile vincere a Roma perché ci sono società più potenti a livello economico, con più storia alle spalle, per quel che riguarda le vittorie, e, lo sappiamo, “vincere aiuta a vincere”. La Juve in questi anni ha avuto uno strapotere finanziario certo, grazie allo stadio ma anche per come hanno gestito il capitale umano di cui disponevano. E si sono tolti di dosso l’immagine dell’ultima gestione, che era stata vincente ma aveva delle macchie gigantesche sul groppone. Noi gli siamo sempre stati dietro negli ultimi anni. Passargli davanti sfiora l’impossibile, ma noi ci proviamo, non abbiamo mai mollato, non abbiamo mai smesso di tentare di farlo, non ci nascondiamo dietro a questo loro strapotere, partiamo alla pari con tutti quanti».

C’è anche un aspetto ambientale?
«Negli anni mi sono convinto che non sia così determinante come pensavo quando ho iniziato. Sai “Oddio le radio hanno massacrato quel giocatore…”, sì ma poi non vanno in campo le radio, vanno i giocatori. Certo, le radio, i giornali, l’estrema passione che c’è in città ogni tanto portano a superare i limiti. Secondo me hanno fatto un danno, hanno stravolto quel senso di “romanismo” che esisteva un tempo. Il romanista prima difendeva sempre un altro romanista, difendeva il proprio giocatore anche se era il più scarso. Era proprio una famiglia, qualcosa che univa tutti quanti perché “noi siamo romanisti, noi siamo romani, noi siamo una cosa diversa da voi“. Adesso c’è una facilità nel dividersi per qualsiasi cosa che se non ha portato meno punti in campo sicuramente non ha aiutato a vivere meglio quello che si faceva. C’è una sorta di tendenza a creare un po’ di scompiglio, qualcuno perché ha degli interessi a farlo, altri perché poi siamo proprio portati a fare questo. Si tende a supportare le proprie idee  fino alla morte. Se io ho detto nel 2006 che De Rossi è scarso io devo accompagnare questa mia teoria  fino alla morte. Nessuno accetta serenamente di aver sbagliato. Credo che sia così un po’ in tutte le cose e penso che oggi i social network abbiano aiutato a tenere la gente un po’ più fissa sulle proprie idee. Quello che dicevi una volta uscito finiva, adesso è scritto, è lì, quindi chiunque ti può portare il conto di quello che hai detto. Però la chiusura del discorso è che si può vincere anche in un ambiente così complesso. Non voglio e non cerco scuse».

Di Roma città cosa le piace? E cosa invece le da fastidio?
«Come diceva Benigni in “Johnny stecchino”, il traffico. Per me che lavoro a Roma sud vivere a Roma centro è pesante, per il traffico. E trovo allarmante la situazione igienica: ci sono ormai dei gabbiani grossi come i dinosauri di Jurassic Park che fanno le risse con i topi. E’ una cosa deprimente. Ma poi alzi gli occhi e vedi Castel Sant’Angelo, vedi la bellezza clamorosa di questa città meravigliosa. Giorno dopo giorno scopro sempre di più perché mi sono innamorato di Roma. E’ una città che ancora non ho finito di scoprire. E’ la città più bella del mondo. La gente nel quotidiano, non parlo del calcio, è meravigliosa. Non assilla, rispetta, è solidale».

Concluderà a Roma la sua carriera?
«Non lo so. Ho sempre pensato che sarebbe molto bello se io  finissi a Roma. Mi piacerebbe vivere, con le dovute proporzioni, una giornata come quella che ha conosciuto Francesco il 28 maggio. Sarebbe bello vivere un saluto così intenso con i tifosi, anche per me. Non so quando, non so come. Allo stesso tempo però avverto forte il desiderio di vivere un’esperienza altrove. Anche perché sedici anni di Roma sono come trentadue anni da un’altra parte, sono impegnativi, te li senti addosso. Ringraziando Dio non fisicamente perché sto vivendo forse le migliori stagioni della mia carriera. Ma la pressione è eccessiva, spesso».

E dunque?
«Quindi questa pesantezza la senti. Io un’esperienza fuori, lontano, penso che vorrei viverla, che dovrò viverla. Sinceramente avevo deciso di farla dall’anno scorso: c’è stato un periodo lungo in cui non avevo contatti con la società per il rinnovo. A me non andava neanche troppo male: insomma, stavo facendo nella mia testa la mia ultima stagione, stavo giocando alla grande, quindi avrei lasciato un bel ricordo. Andava bene così. Per un certo periodo di tempo era stata questa la mia idea. L’offerta più grossa era quella di un club italiano. Ma, come si dice, non mi ha retto la pompa: non me la sentivo di tradire la città e i tifosi. Probabilmente se fosse arrivato un club europeo o americano – non è un segreto che uno dei miei sogni è andare a fare lì un’esperienza di vita e di calcio – probabilmente oggi non saremmo qui».

Come immagina il suo futuro dopo aver smesso di giocare?
«Sono molto combattuto. So che devo cominciare a pensarci per tempo perché ho visto tanti miei colleghi arrivare agli sgoccioli della propria carriera e non sapere cosa fare. Francesco è stato un esempio importante per me. L’ho visto indeciso nell’ultima fase, l’ho visto non felice. Oltre a stargli vicino cercavo anche di riflettere sul suo travaglio. Quello che è toccato a lui l’anno scorso toccherà a me, tra poco. Sono molto combattuto, perché da una parte mi piacerebbe viaggiare, mi piacerebbe vedere il mondo, mi piacerebbe sentirmi libero di fare programmi a lungo termine. Con questo lavoro sei sempre vincolato e non vorrei accadesse lo stesso dopo, se restassi nel calcio. Però mi faccio due domande: “Che faccio?” Rimanere a casa dalla mattina alla sera quando non ci sei mai stato, magari porta ancora più tensione in famiglia e dentro di te. L’altra domanda è “Ti piacerebbe fare l’allenatore?” Negli ultimi anni mi sto rispondendo di sì sempre più spesso. Anche grazie al fatto che ho avuto degli allenatori che mi hanno affascinato moltissimo durante la mia carriera. Vorrei diventare come loro non per seguire il 4-4-2, 4-3- 3, 4-5-1, ma nel senso che mi sembra bellissimo un leader che guida venti giocatori che lo seguono in maniera assoluta. Mi piacerebbe, se avessi una squadra. Però mi rendo conto che è un lavoro difficilissimo, faticosissimo, stressantissimo, quindi questi dubbi rimangono e spero di scioglierli con il tempo».

Chi sono stati questi allenatori così importanti per lei?
«C’è stato un periodo in cui ero allenato da Spalletti e da Conte nello stesso tempo. Allenatori molto diversi tra di loro, anche a livello tattico, diversi per il modo in cui parlano ai loro giocatori, per quello che vogliono, ma capaci di farsi rispettare dai loro giocatori. Credo che la fortuna di un giovane allenatore la facciano, salvo qualche eccezione, i tecnici che hai avuto quando hai giocato. Garcia aveva dei lati incredibili ai quali mi vorrei ispirare, Luis Enrique altrettanto. Tanti altri allenatori mi hanno dato molto. Poi ci sono stati quelli con cui non mi sono trovato bene, in verità solo uno, e in quel caso devo propormi di non fare quello che hanno fatto che, secondo me, era sbagliatissimo. Insomma ho pensato “E’ bello fare quello che fanno gli allenatori?” La risposta è che è devastante, stressante, però è molto bello. E secondo me potrei fare solo quello, nel calcio».

Con Di Francesco come si trova?
«Mi trovo bene, l’ho conosciuto tanti anni fa. Lui era il De Rossi di allora e io ero il Gerson, il Pellegrini. Ero molto piccolo ed è sempre stato un compagno di squadra che esercitava la leadership in modo corretto, quello con più esperienza che tratta bene e insegna ai giovani. Come lui Tommasi, Fuser, Batistuta. Poi è stato il nostro team manager. Ruolo che adesso sta svolgendo Morgan De Sanctis e sono contento di questo. E’ un valore aggiunto per noi, una persona di qualità e potrà portare vantaggi sia alla società che a noi giocatori. Mi trovo benissimo con Di Francesco e sono contento che ora venga riconosciuto quello che sta facendo. Nelle prime partite è stato criticato senza motivo. Ora dimostrerà lui, in un anno a Roma, se è all’altezza o no, ma facciamolo lavorare serenamente. Facciamogli sbagliare dieci partite e facciamogli fare bene dieci partite. E’ stato criticato dopo un’amichevole persa a  fine tournée e ho letto delle cose che non ho mai visto su nessun altro. E’ stato criticato persino dopo aver vinto con l’Atalanta. Quando vinci non ti dovrebbero attaccare, dovrebbero dire “squadra cinica”, come dicono sempre della Juve. Gli allenatori a Roma sono arrivati con grandi dubbi tutti, sono diventati fortissimi tutti, e sono diventati degli asini quando sono andati via tutti. E’ un modo di fare che non mi appartiene. Per me va giudicato il lavoro alla  fine. Valutiamo la persona come si è comportata, però valutiamo i punti che fa con la squadra e valutiamo la qualità del gioco».

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