(C. Cito) Giuseppe Giannini era il Principe di quell’Italia magica e incompiuta, nel cuore di anni che ora sembrano lontani come la luna. «Vicini mi chiamava Principe, mai ascoltato dalla sua voce né Giuseppe, né Beppe, né Giannini. Lo conoscevo sin dai tempi dell’Under 21, ebbe il merito di credere in un gruppo di uomini, di farlo crescere nel tempo. Non aveva e non gli misero fretta. Il mio Mondiale fu buono, segnai un gol contro gli Usa, l’urlo dell’Olimpico non lo dimenticherò mai».
La prima immagine che le viene in mente pensando a lui? «I suoi occhi dopo la semifinale del Mondiale contro l’Argentina. Sbarrati, lucidi, e nemmeno una parola per noi, né di conforto, né di critica. Avevamo dato tutto e lui aveva dato tutto. Lo sapeva». Era la notte del nostro Maracanaço. Cosa accadde, dopo? «Da Napoli a Roma, anzi a Marino, dov’era la sede del nostro ritiro, in un silenzio cimiteriale. Nessuno, per almeno due ore, osò dire una parola. Quel tratto di autostrada ci sembrò lunghissimo. La strada, da Marino a Roma, nei primi giorni di quel Mondiale, era sempre stata piena di gente, quella notte ci parve di attraversare un deserto nero». Che allenatore era Vicini? «Un sanguigno, uno dei vecchi tempi, un romagnolo focoso, anche se forse non si notava dall’esterno».
Qual era la sua maniera di motivarvi? «Non aveva riti, movenze particolari, non era un allenatore che si farà ricordare per le sue esternazioni. Ma nel cuore del gruppo la sua autorevolezza era indiscutibile. Ebbe screzi, seppe gestirli con intelligenza. Non ha mai precluso la porta azzurra in maniera pregiudiziale a nessuno, per lui contava il campo perché da lì veniva, era un uomo di campo, che aveva giocato e sapeva. Una figura purtroppo sempre più inattuale». Avete continuato a sentirvi negli anni? «Spesso, ed erano sempre interessanti conversazioni sul calcio e anche su molto altro».