Intervista a Paul Rogers, il responsabile digital e social media della A.S. Roma:
Paul, hai lavorato per il Liverpool prima di cominciare con la Roma. In quei giorni internet era diverso da quello di oggi. Come è cambiato il tuo lavoro?
Ho cominciato al Liverpool nel 2001 ed era un momento molto diverso, dentro e fuori dal campo. Eravamo l’ultimo club di Premier League a creare un sito ufficiale e io sono stato coinvolto per mettere su e gestire il nuovo team di digital content. Abbiamo lanciato il nuovo sito e in seguito siamo stati la prima squadra a mandare in streaming un’intera partita – una gara di Premier contro il Manchester United. Sapevamo già che i video online sarebbero stati il futuro. Allora non c’era ancora il wi-fi e la banda larga non era qualcosa a cui i tifosi normali avevano accesso. Usavamo delle connessioni analogiche per pubblicare i contenuti ed era difficile per i tifosi riuscire a fruire di questi contenuti live. Ricordo ancora quando ero a Istanbul per seguire la finale di Champions League contro il Milan, eravamo completamente stressati durante la gara, pubblicavamo contenuti sul sito e in contemporanea mandavamo update via sms. Non esistevano ancora Youtube, Facebook o Twitter. Non esistevano i social media, avevamo invece le bacheche e i forum. In pochi anni il panorama online è cambiato completamente. Il ritmo dei cambiamenti è stato incredibile e se non eri capace di evolverti come club venivi lasciato indietro. Sono passato dall’essere un giornalista di una rivista a editor di un sito, da producer tv a Head of Content del canale televisivo LFC TV nel 2007. Poi sono arrivati i social media nel 2008/2009 e tutto è cambiato ancora. Non è stato facile, ma non è mai stato noioso.
Hai dichiarato che uno dei tuoi motti è “Think global, act local”. Viene spesso detto per il mondo dell’economia e quello dell’agricoltura, ma come si applica al tuo lavoro?
Tutti hanno la propria strategia o un modo di fare le cose, ma personalmente sono sempre stato un grande sostenitore della localizzazione dei contenuti piuttosto che della traduzione degli stessi. Credo che il miglior contenuto sia quello che riesce davvero a “risonare” con il pubblico desiderato. Se vogliamo comunicare e attrarre tifosi della Roma in Thailandia o Cina dobbiamo fare qualcosa in più del semplice distribuirgli contenuti tradotti nella loro lingua. Abbiamo bisogno di lavorare con gente del posto per creare materiali effettivamente localizzati per il pubblico. La Roma ha milioni di fan in Paesi come Indonesia, America ed Egitto ma in questi Paesi il consumo di contenuti è sempre diverso. Il nostro compito è assicurarci di consegnare il giusto contenuto, nel momento giusto e sulla piattaforma più consona. Il contenuto che pubblichiamo sul nostro sito italiano o sull’account Twitter non è sempre lo stesso che pubblichiamo sulle versioni inglesi, e ci siamo resi conto che questa strategia funziona bene. Un piccolo esempio: sul nostro sito italiano gli articoli storici hanno risultati migliori che sulla versione inglese. Ci siamo accorti inoltre che i fan arabi amano molto partecipare ai sondaggi, mentre quelli indonesiani sono incredibili nel creare grafiche e artwork a tema Roma. Noi teniamo in considerazione tutti questi diversi fattori quando disegnamo contenuti differenti per piattaforme e pubblici diversi.
Che tipo di strategia hai quando comunichi le particolarità di un club con un’identità già molto forte come quella della Roma?
Forse non avremo vinto lo stesso numero di trofei di altre grandi realtà in Italia ma questo non toglie che stiamo parlando di un club con 90 anni di storia incredibile. Da una prospettiva di contenuto, il nostro lavoro è rispettare la tradizione e costruirci intorno qualcosa di nuovo per l’era digitale. Sono fortunato a essere circondato da grandi persone, cresciute tifando la Roma – molto prima di cominciare a lavorare per il club. Loro riescono a capire la tifoseria perché sono loro per primi tifosi – i loro padri e fratelli e sorelle e cugine sono tifosi della Roma. Loro vivono e respirano la Roma ogni giorno, e mettono passione nel proprio lavoro. Non siamo qui per riscrivere la storia o stracciare le tradizioni; siamo qui per coinvolgere online i tifosi della Roma in una modalità in cui non venivano coinvolti prima. La storia e la tradizione di questo club sono sempre presenti. Noi guardiamo costantemente al futuro. Roma è stata costruita sull’innovazione e cerchiamo costantemente nuove strade per innovare e spingere le cose oltre. Vogliamo che la Roma diventi il digital club più innovativo in Europa e questo significa sperimentare con la tecnologia e il contenuto.
Quanto pensate ai tifosi di Roma? Di solito solo la parte più conservatrice di un club.
Tutto quello che facciamo lo facciamo per i tifosi; ogni decisione presa comincia con loro in mente. Li stiamo ascoltando? Li stiamo coinvolgendo? Stiamo dando loro una voce? A Roma i fan sono costantemente bombardati da contenuti. Stazioni radio, giornali, blog, le bacheche dei social, i programmi televisivi e le conversazioni riguardanti la squadra che senti ovunque. I tifosi sono liberi di consumare il contenuto che vogliono e il nostro lavoro è offrire loro qualcosa di diverso, che li faccia sentire non solo vicini ma a tutti gli effetti parte del club. Non vogliono più essere solo consumer passivi, vogliono partecipare alla storia ed è per questo che noi proviamo a coinvolgerli nella fase di creazione. Un tifoso per esempio ha disegnato la grafica del gol che usiamo in ogni partita e ha anche lavorato alla creatività del marketing per la campagna abbonamenti. Altri scrivono rubriche o domande per le interviste dei calciatori, creano video e grafiche utilizzate poi sui nostri social. Non credo che i tifosi della Roma siano conservatori – credo siano creativi e appassionati e sono il nostro patrimonio più grande. I giocatori e gli allenatori vanno e vengono ma sono i tifosi a rimanere per sempre. Ma più di ogni altra cosa, i fan vorrebbero vedere la squadra vincere. È il motivo stesso per cui il club esiste. Il mio team di contenuti non può influenzare ciò che accade sul campo; non siamo responsabili per le vittorie e non lo siamo per le sconfitte. La Roma è un club di incredibili momenti alti e poi “bassi” deprimenti, ma per quanto riguarda la nostra area cerchiamo sempre di tenere a mente che il nostro lavoro è consegnare il miglior contenuto digitale possibile ai fan. Non possiamo fermarci ogni volta che perdiamo una gara. Spesso vedo commenti su Twitter di tifosi che si lamentano del fatto che il club dovrebbe impegnarsi di più a difendere che a twittare video a 360 gradi o chissà cos’altro. Ma il ragazzo che cura i social non è lo stesso che va in campo ad allenarsi. Se fosse realmente così allora i tifosi sì che avrebbero qualcosa di cui lamentarsi.
Ti piacerebbe di più essere il primo ad adottare un nuovo social network o il migliore nell’interpretarne l’utilizzo, anche se in ritardo? E perché?
L’obiettivo è sempre essere il migliore. Se sei il primo, come è stato per noi su alcune piattaforme, è bello ma non abbastanza. Una cosa di cui non abbiamo paura in termini di digital è sicuramente fallire. Non sempre faremo la cosa giusta – commetteremo qualche errore – ma continuiamo ad andare avanti. Continuiamo a sperimentare e cercare nuove strade per distribuire contenuti. Credo che se chiedi nel mondo del calcio quali club sono i più innovativi in fatto di tecnologia e contenuti, ti citeranno la Roma insieme a club come Manchester City, Bayern Monaco e Barcellona. Certo non siamo perfetti in tutto quello che facciamo ma non abbiamo paura di essere diversi. Non ci prendiamo troppo sul serio. Il calcio è un business ma dovrebbe essere anche divertente.
Hai detto di avere un ottimo feeling con Pallotta e che la sua fiducia è la cosa più importante. Credi che ci siano molti proprietari come lui nel calcio europeo o che ci sia ancora da fare?
Ho davvero una buona relazione relativa con il presidente. Jim è da sempre coinvolto nel mondo della tecnologia, dello sport e dei media. Ha portato questa esperienza e questa prospettiva a Roma. Per noi, che lavoriamo sul lato digitale delle cose, è grandioso perché non solo capisce cosa stiamo cercando di fare, ma ci spinge a fare di più. Probabilmente è più coinvolto di un sacco di altri proprietari nel lavoro giornaliero, ma questo è perché è appassionato e determinato a costruire un club vincente. Capisce che perché la Roma sia vincente sul campo, deve esserlo anche fuori e sta lavorando ogni giorno per far si che questo accada all’interno dei complessi parametri del Financial Fair Play. I tifosi non sono sempre d’accordo con quello che fa o che dice ma dato che lo vedo molto spesso, so quanto la Roma significhi per lui e quanta voglia ha di riportare questa squadra al successo.
Ha spesso dei suggerimenti o degli spunti?
Quando si parla di tecnologia Pallotta è veramente prezioso, perché in quell’area ha investito per molto tempo. Certamente conosce molto bene l’Intelligenza Artificiale e il machine learning, più di me, e ci spinge costantemente a sperimentare con le nuove tecnologie, lavorare con start-up che possano portare alla Roma qualcosa di innovativo.
Qual è il tuo background culturale?
Anche se lavoro per dei club di calcio da 17 anni, ho cominciato come giornalista musicale. Quando ero bambino mi piacevano il calcio e l’hip-hop e quando è diventato chiaro che non avrei seguito Kenny Dalglish al Liverpool ho deciso di diventare un giornalista. Mi piaceva molto andare ai concerti rap quando ero un adolescente e quando tornavo a casa scrivevo recensioni su una macchina da scrivere e le pubblicavo su diversi magazine. Una volta, mi ricordo, lavoravo in un negozio sportivo, vendevo scarpe da ginnastica e durante la pausa pranzo andai in un altro negozio per comprare un magazine musicale. Quando lo aprii vidi che che avevano pubblicato la mia recensione di un concerto di Ice T. Era il 1989 e da allora ho cominciato a lavorare per quel magazine, scrivendo di hip-hop. Durante il giorno ero un ragazzino che andava al college ma divenni presto un giornalista musicale freelance e venivo inviato a intervistare gente come Public Enemy, NWA, Gang Starr, Dr. Dre, Cypress Hill, De La Soul e A Tribe Called Quest. Avevo anche la mia rubrica settimanale su un altro magazine. Crescendo ho cambiato i miei gusti musicali e sono stato abbastanza fortunato da venire mandato in America a intervistare gruppi come Dinosaur Jr e REM, ma anche band inglesi come gli Spiritualized, i Blur e star del pop come Kylie Minogue e Debbie Harry.
E quali sono le tue esperienze lavorative prima del calcio?
Per essere uno che deve lavorare online tutto il giorno, mi piace passare il tempo libero lontano dallo schermo. Leggo ancora le cose di carta, libri, giornali e magazine. Non credo ci siano molte persona appassionate di riviste quanto lo sono io. Nel corso della mia vita credo di aver speso la maggior parte dei miei soldi in magazine musicali, sigarette e vestiti. Compravo magazine calcistici da bambino, come Shoot o Match, magazine pop come Smash Hits, poi magazine come NME e Melody Maker. A 14 o 15 anni ho scoperto The Face. La amavo, quella rivista. Ho amato tutto quello che pubblicavano e l’ho comprata religiosamente per anni, finché non ha chiuso. Dopo ho cominciato a scoprire altre testate di moda come i-D, Arena, Arena Homme, Dazed & Confused, Sleaze Nation e Loaded. Sono anche stato abbastanza fortunato da scrivere per alcuni di questi e mi piace che ci sia questo revival negli ultimi anni, la gente sta cominciando a pubblicare nuovi magazine riguardo tematiche che mi appassionano. È un po’ come il revival del vinile: la gente sta comprando di nuovo i dischi perché è bello tornare a casa e metterne su uno. E lo stesso è per me con le riviste. Se vado da qualche parte compro un magazine, mi siedo e leggo. Grandi fotografi, grandi scrittori e grande design. È molto meglio di internet!
Fonte: Rivista Undici