(A. Angeloni) – La faccia pulita, acqua e sapone (neutro), l’assenza di tatuaggi che colorano (o sporcano, a seconda dei punti dii vista) il corpo, la discrezione negli abiti, l’educazione, quel saper parlare correttamente la lingua italiana; e poi in campo, la tecnica da giocoliere applicata al gioco del calcio, l’essere decisivo nelle partite spesso e volentieri attraverso gol (otto fino a ora in campionato) o assist (quattro). Questo è Stephan El Shaarawy fuori dal campo e dentro: un calciatore forte, ma poco reclamizzato. E’ un fenomeno strano: lo adorano i bambini, lo snobbano i grandi. Tutto ciò che fa viene dato quasi per scontato, i riflettori si accendono poco su di lui e quando alza la cresta, ci si aspetta che la alzi sempre, ogni partita, ogni stagione. Forever. E’ il destino di un ragazzo nato fenomeno e cresciuto con l’etichetta di quello che “va aspettato” perché “poco continuo”. ElSha è solamente normale. Normalmente bravo. E alla Roma è utilissimo.
NON È – Cominciamo col dire ciò che Stephan non è: non è un bomber, nella sua carriera solo una volta, ai tempi del Milan (stagione 2012/2013, 16 reti) è andato in doppia cifra in campionato, nella Roma al massimo è arrivato a otto, quest’anno può superare se stesso. Non è un contropiedista: gli piace aspettare la palla e non andare in profondità, ma sta migliorando. Non è un leader, della sua vita privata (giustamente) si sa poco. Parlare a voce bassa non dà grossi risultati, meglio urlare. E lui non urla, ha il contratto in scadenza nel 2020 e non si sentono lamenti di procuratori o affini. Normale? No. Per lui sì. El Shaarawy sembra uno di quei ragazzetti con lo zainetto in spalla, pronto ad andare a scuola. Sembra, poi guardi la data di nascita e ti accorgi che stiamo parlando di un classe ‘92. Quindi basta con “aspettare ElSha”. Quello che sa fare ha dimostrato di saperlo fare. Nel tempo si è consolidato come un titolare della Roma, Di Francesco lo ha definito il suo esterno ideale. Giocoliere e non solo. Ha un piede di velluto: a Frosinone è stato decisivo pur senza fare gol, ma mettendo a segno un assist vero (per Dzeko) e uno a metà (per Pellegrini). Sempre nel vivo del gioco, dopo il periodo di inattività per infortunio è stato spesso determinante, con un assist, con uno scatto o con un gol. Spalletti sosteneva che Stephan avesse il difetto di accontentarsi subito, cioè segnava un gol o faceva una giocata e poi si sentiva appagato, non trovando la continuità nella partita. A Frosinone ha dimostrato di essere cresciuto sotto questo aspetto, stando dentro il gioco fino alla fine, sfoderando la palla gol decisiva cinque minuti dopo il novantesimo. Gli manca ancora oggi un po’ di coraggio nell’uno contro uno, così come ha ammesso lui stesso. Ed è il motivo per cui lo scorso anno Eusebio spesso gli ha preferito Perotti, abilissimo a cercare l’avversario e saltarlo di netto. Ma ora è tutto diverso. Il bambino con lo zainetto è diventato un Faraone. Un Faraone normale.
Fonte: Il Messaggero