(P.Mei) all’Olimpico c’è la luna:Miroslav Klose, che quando ormai il tempo sgocciolava alla fine dei giochi, e del gran gioco che è il derby, cammina sotto la Nord che sventola ogni bandiera possibile. È lui, il tedesco di Polonia o il polacco di Germania, l’uomo del derby. Che rovescia con un gol una storia che durava da cinque volte, quante aveva vinto la Roma di seguito.
E il bello dei debuttanti s’è trasformato nel ballo dei debuttanti: un tedesco così non sente l’emozione, o ben la nasconde. Neppure aveva, sotto la maglietta biancoceleste, quella della salute, con stampato su qualcosa come il precipitoso e spavaldo «Vi ho purgato anch’io» di Osvaldo. Indigesta fu la sportiva purga. Per restare in tema di sinistre assonanze, c’era un Klose mit uns.
Il derby è una partita in tre tempi: prima, durante e dopo. E non è detto che quello di centro sia il più spettacolare, pur se è quello che fa accelerare il cuore. Il prima è un lungo dialogo che non è per miopi, giacché si parla con la curva di fronte, più di cento metri distante, a mezzo scritto. Sbucano le ultime novità di mercato (Klose da matti, Vacce Pjanic), il sentimento più antico (Non saprai mai quanto ti amo, Innamorato sempre di più), la cosa seria (Salviamo il Santa Lucia, che chiede di non buttare via uno dei centri d’eccellenza per la riabilitazione, che il mondo c’invidia ed è a rischio chiusura), il ricordo di tutti (dedicato ad Andrea Pesciarelli, il giornalista Mediaset che non c’è più: lungo è l’applauso), la vecchia battuta (Quelli che hanno portato il cacio a Roma) e l’ultima pensata (W le case Klose, A noi ce piace Lamela, a voi la banana), lo stato d’animo che ciascuno legge nei volti, di qua e di là tutti un po’ straniati dalla tensione e vagamente assenti (A’ tristi, A’ sbiaditi).
Entrano i giocatori ad assaggiare il terreno: i più hanno le barbe o tali o mal rasate, una scaramanzia della mattina della partita; per radersi c’è sempre tempo. Entra Cisse che ha la barba bianca e si toglie la cuffia dell’iPod (ha promesso un gol), entra De Rossi, il tignoso Capitan Futuro che nell’occasione è Capitan Presente mancando il titolare in grado. Entrambi provano il prato di tacco e punta e pollici. Sventola qualche manita per i cinque derby in archivio, ma la risposta è: Giovedì te vedi Don Matteo, la perduta Europa minore. Ci si chiede: se Olimpya (sic) nun po’ volà, xké Tajavento po’ arbitrà? Lo chiedono dalla parte laziale, ma alla fine avrebbero avuto più diritto alla domanda da parte romanista. E’ l’italiano degli sms, la nuova lingua. The game is Klosed, inglese da stadio; per un’attimo (con l’apostrofo) dal lato romanista.
Ma il bello sono le bellezze, da quando la domenica non restano più sole ma vanno anche loro a vedere la partita di pallone, piccola compensazione numerica dei tanti maschi fuggiti dallo stadio in direzione poltrona: l’Olimpico romano è anche una passerella e il cameraman non ha che l’imbarazzo della scelta per le ragazze. Se si scoprono inquadrate fingono imbarazzo, ma quei secondi di celebrità piacciono come un video da mettere su Youtube. Apparire gratifica: si sospende perfino il ciancicare la chewing gum. Nella Tevere bambini vestiti di Lazio e di Roma fanno confusione insieme: i bambini non hanno nemici a prescindere, Save the children è un invito che s’è sentito anche al derby e, speriamo, ascoltato. Reja pure non è un nemico, se non per la sua parte: al suo nome di allenatore della Lazio, la Sud esplode in un boato di approvazione. Totti avrà sorriso sornione.
Olimpia non vola: né aquila né gabbiano sta appollaiata sul braccio del falconiere e sbatte le ali. La sicurezza è garantita… Passa sotto la stendardizzata Nord, la Sud non la vede affumicata dai fumogeni gialli e rossi che sono la risposta al biancoceleste di fronte: la nebbia giallorossa sale al cielo appena in tempo per mostrare al popolo romanista il gol di Osvaldo. Dura un tempo: poi, quasi allo stesso minuto, nella stessa porta, sotto la stessa Nord, l’espulsione di Kjaer e il rigore di Hernanes. Era l’inizio dell’assedio che avrebbe resistito fino a quindici secondi dalla fine. Sembrano poco, sono tutto.
E ora il terzo tempo. Quello che lascerebbe il tifo biancoceleste sugli spalti per non andarsene più, per aver rotto la catena del derby perduto. Quello che s’aprirà a tutti gli sfottò di qui al ritorno: e sarà lunga, perché c’era e c’è tanta voglia di rifarsi. E fu subito vuoto nella Sud, mentre la Nord canta ancora.